Alcune delle loro storie sono state rivelate soltanto nel maggio 2016, dopo che il quotidiano Hareetz ha diffuso un reportage investigativo sulla questione. Al punto che, sul tema dei bimbi ebrei yemeniti scomparsi o rapiti fin dalla prima migrazione verso lo Stato d’Israele nel 1948, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dovuto chiedere al ministro Tzachi Hanegbi un’indagine e tre commissioni di inchiesta su un faldone di documenti classificati fino al 2071.
La vicenda è tornata d’attualità dopo il trasferimento, nello scorso dicembre, delle ultime famiglie di ebrei yemeniti rimaste a Sanaa e le polemiche conseguenti la difficoltà di integrare ebrei con tradizioni molto ortodosse e una cultura di base assai più vicina ai musulmani, in uno Stato come Israele. Così, l’organizzazione Amram, che possiede un archivio gigantesco appena caricato in Internet mesi fa, ha ripreso il tema-tabù delle famiglie israeliane di origine yemenita che denunciano la scomparsa-rapimento di almeno uno dei loro figli da parte dell’establishment israeliano nei primi dieci anni di formazione del Paese, e in particolare tra il 1948 e il 1954.
L’affaire saltò fuori per la prima volta negli anni Sessanta, quando alcune famiglie accusarono la classe dirigente degli ebrei ashkenaziti di avere fatto sparire con metodo e premeditazione centinaia di bambini yemeniti, migrati verso Israele negli ultimi anni Quaranta o all’inizio degli anni Cinquanta, per cederli a famiglie ashkenazite senza figli, riferendo alle famiglie yemenite di origine che il loro figliolo era morto per una qualche malattia.
Come ciò sia stato possibile è bene espresso dalla storia di Nehemia Ziner, 76 anni, intervistata da al-Monitor, la quale dichiara: «Avevo una sorella di nome Naomi Ziner che era stata ricoverata all’ospedale del Monte Scopus. Mio padre, buonanima, andò a visitarla e i dottori gli dissero che era morta. Mio padre chiese di vedere il corpo o di ricevere un certificato di morte ma ignorarono la sua richiesta con tutte le scuse possibili. Tornò a casa senza di lei. Sono sconvolta da un Paese i cui padri della patria l’hanno costruito con una mano destra, distruggendolo con la sinistra. Li disprezzo».
Non tutti sono convinti della bontà di queste testimonianze. Dov Levitan dell’Università Bar-Ilan che ha studiato l’immigrazione e l’integrazione degli ebrei yemeniti, ribatte ad al-Monitor che queste testimonianze arrivano 50-60 anni dopo gli eventi e l’idea che si è fatto è che vengano usate a fini politici. Levitan avrebbe intervistato centinaia di famiglie e molte anche più di una volta: «Le versioni non coincidono mai e l’ultima diventa sempre quella definitiva. Ci sono dei casi in cui le famiglie ammettono che non potevano badare ai bambini e che avrebbero accettato di cederli in adozione». Shlomi Hatuka, fondatore di Amran, proviene da una di questa famiglie e non è affatto di questo avviso: «Non si dovrebbe pensare nemmeno per un istante che queste testimonianze sono fabbricate, come se mettessimo a confronto un sopravvissuto all’Olocausto con un negazionista. I bambini sono scomparsi in periodi precisi, da ospedali precisi, in maniera metodica. La storia non mente mai e le famiglie ne hanno sempre parlato, trasmettendoci il desiderio di giustizia di generazione in generazione». L’ultima, a cui appartiene Shlomi, che è poeta e attivista, ha preso in mano anche le armi del web 2.0 e dei social media. «Adesso abbiamo un sito, Facebook, Twitter un archivio virtuale e li useremo in modo appropriato».
La narrativa del rapimento resta centrale nella storia delle famiglie degli ebrei yemeniti ma per Levitan non regge quantomeno il capo d’accusa: «A quell’epoca accaddero molte cose tremende ai migranti: vennero derubati dei manoscritti, vestiti, gioielleria, oro e argento. Umiliati in assoluto. Lo Stato ha fatto molte cose folli, come non fare sapere ai parenti in tempo reale che i loro figli erano morti. Ma rapirli per adottarli, era impossibile da parte degli ashkenaziti. Coloro che fecero questo, a quel tempo, non erano ashkenaziti perché non avrebbero mai accettato l’adozione di un bambino yemenita. Semplicemente perché erano razzisti». L’ultima parola su questa vecchia storia che si riversa sul presente è attesa adesso dalle tre commissioni d’inchiesta. Le famiglie chiedono di de-secretare gli atti e avere verità e giustizia.