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Cinque anni di solidarietà con le minoranze irachene

Terresainte.net
15 luglio 2016
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Sensibile alla sorte delle minoranze irachene, un gruppo d’amici francesi ha creato, nel 2011, l’associazione Fraternité en Irak. Nostra intervista al presidente Faraj Benoît Camurat.


Nel 2011 in Francia un gruppo di amici ha creato l’associazione Fraternité en Irak (Fei) allo scopo di aiutare le minoranze religiose – cristiani, yazidi, shabak, mandei, kakei – a restare nel loro paese natale e a vivervi degnamente. In concreto, l’associazione aiuta gli sfollati a far fronte alle situazioni d’emergenza e intraprendere progetti nell’ambito della salute, dell’istruzione e dell’integrazione sociale ed economica. Faraj Benoît Camurat, presidente di Fraternité en Irak, ha accettato di rispondere alle domande di Terrasanta.net.

In che misura la vostra associazione si affida a volontari?
Fei conta soltanto su personale volontario. Non impieghiamo professionisti a tempo pieno. Nel giro di cinque anni sono all’incirca 150 i francesi che già hanno vissuto un’esperienza in Iraq con l’associazione. Costituiscono il nostro zoccolo duro attorno al quale ruotano anche numerosi altri volontari, che collaborano con noi senza essere mai partiti. Formano tutti una grande rete di sostegno che partecipa a questa fraternità con gli iracheni.

Come siete visti dal governo iracheno? E dalle autorità del Kurdistan?
I nostri progetti si sviluppano essenzialmente nel Kurdistan iracheno. Abbiamo buone relazioni con le autorità locali a cui facciamo visita regolarmente. A Kirkuk incontriamo anche periodicamente il governatore della provincia. Recentemente abbiamo allacciato rapporti con il responsabile dell’università che accoglie 400 studenti sfollati sostenuti da Fei. A Erbil siamo in contatto con le autorità curde per l’importazione di medicinali o per l’autorizzazione a mettere sul mercato i prodotti della nostra panetteria e dei laboratori che producono crema di sesamo. I passaggi da compiere talvolta sono lenti, ma fin qui sono stati fruttosi.

Qual è, al momento, il vostro progetto più importante?
Tra quanto abbiamo realizzato fin qui c’è la costruzione della chiesa nel campo profughi di Ashti, a Erbil, e il raddoppio della capacità della scuola multi-religiosa di Kirkuk. Tra i progetti in corso, il più importante è quello che riguarda il sostegno agli studenti di Kirkuk. È un aiuto sul lungo termine perché la diocesi locale ha bisogno di fondi tutto l’anno per accogliere gli allievi sfollati. Possono così riprendere le lezioni interrotte quando hanno dovuto scappare, ma mancano di tutto: vitto, alloggio, mezzi di trasporto, materiale scolastico. La sfida che dobbiamo fronteggiare ora è ridare un lavoro ai profughi. Per questo abbiamo lanciato corsi di formazione e creiamo piccole imprese che creino occupazione.

Oggi come oggi quanti volontari avete in Iraq, francesi o di altre nazionalità?
Fei non ha volontari francesi permanentemente in Iraq. L’associazione va avanti con missioni di durate breve, da una a tre settimane, che si avvicendano. Ogni missione è diretta da un capo che conosce già il terreno. Ogni volontario si fa carico integralmente del biglietto aereo e delle spese di soggiorno così da ridurre al massimo i costi di funzionamento dell’associazione. Va da sé che ciò implica una forte motivazione e un serio impegno personale dei volontari.
Questo modo di operare funziona solo se i volontari disponibili tornano più volte in Iraq e diventano a loro volta capi-missione. Le persone che si impegnano con l’associazione assumono quindi, progressivamente, responsabilità reali.
Tra una missione e l’altra, Fei s’appoggia a membri iracheni, amici ormai numerosi che conosciamo da cinque anni e sono essi stessi volontari.

Chi esercita la supervisione sui progetti?
I progetti sono sotto la supervisione dei nostri volontari in coordinamento con i responsabili locali. La chiesa di Al Bichara, per esempio, è stata costruita nel campo profughi di Ashti, a Erbil, nell’estate 2015. In quel frangente Fei s’è fatta carico della richiesta di mons. Youhanna Boutros Moshe (arcivescovo siro-cattolico di Mosul – ndr) di costruire una chiesa in quel campo dove circa 7 mila persone non disponevano di un luogo di culto adeguato. I volontari dell’associazione, in accordo con il direttore del campo, padre Emmanuel, hanno trovato un pezzo di terreno giusto e preparato il progetto con un membro iracheno di Fei che è ingegnere. Sempre insieme a lui abbiamo assunto gli operai tra gli sfollati. Una volta risolte le difficoltà tecniche, hanno lavorato al cantiere. In tutto, durante la costruzione, si sono avvicendate cinque squadre di volontari francesi.
Questo modo di procedere garantisce il buon andamento dei progetti e ci permette di rendere conto, in modo alquanto preciso, ai nostri donatori circa l’impiego dei fondi. Allo stesso tempo i volontari francesi, che non sono sul posto in modo continuo, possono stare un passo indietro rispetto ai nostri partner iracheni e non sostituirsi a loro davanti alle comunità a cui appartengono.

Qual è la difficoltà più grande che le minoranze irachene si trovano a fronteggiare oggi come oggi?
È l’incertezza del futuro? I loro villaggi d’origine verranno liberati? Se sì, quando? In quali condizioni troveranno le loro case? Potranno sentirsi protetti? Di chi potranno fidarsi? Ci sono molte domande ancora senza risposta.

Dal vostro punto di osservazione confermate che è in corso un esodo delle minoranze? Se sì, verso dove?
Decine di migliaia di cristiani e yazidi hanno lasciato l’Iraq dopo l’arrivo dello Stato Islamico (Isis) a Mosul e nella Piana di Ninive, ma è difficile avere una cifra esatta. I più fortunati riescono ad ottenere direttamente un visto per usufruire del diritto d’asilo in Francia o in altri Paesi occidentali. Gli altri raggiungono i Paesi limitrofi (soprattutto Turchia, Giordania e Libano) dove si rivolgono all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur/Unhcr) per poter poi raggiungere qualche Paese occidentale, ma sono percorsi che richiedono anni, tanto che qualcuno decide di rientrare in Iraq nella speranza di trovare una sistemazione migliore. In ultimo, come accade per altre popolazioni del Medio Oriente, vi sono membri di queste minoranze che hanno preso la strada per l’Europa in modo clandestino, passando per il Mar Egeo. Qualche mese fa un’intera famiglia di Qaraqosh è morta annegata. I funerali si sono svolti proprio nella chiesa di Al Bichara nel campo di Ashti, dal quale erano partiti alcuni giorni prima.

La speranza e la fede dei cristiani, in questi frangenti, sono minate dalla guerra o rinvigoriti dalle persecuzioni?
Per molti profughi cristiani la fede è un rifugio. Tutto il resto è crollato. Nel campo in cui i profughi vivevano sotto le tende, nell’estate 2014, un gruppo di donne si riuniva tutte le sere per recitare il rosario attorno a una statua della Vergine. I battesimi, i matrimoni, le messe domenicali non hanno mai smesso d’essere celebrati. Parecchi cristiani ritengono un vero miracolo che la loro comunità non sia stata decimata come quella degli yazidi. Non bisogna, tuttavia, sottostimare lo choc del ritrovarsi profughi e la prostrazione che ne deriva. Alcuni sfollati sono sprofondati in uno stato di depressione molto grave. Lontani dalle loro case e con tutte le loro abitudini stravolte – la messa quotidiana per la maggior parte di loro – non sono riusciti ad adattarsi alla vita dei campi di raccolta. Proprio per questa ragione è stato importante costruire la chiesa di Al Bichara: ha restituito agli sfollati un ambiente familiare e un luogo in cui praticare la fede.

Ci sono altri aspetti importanti da menzionare?
Sì. Sentiamo spesso dire che la fine dei cristiani in Iraq è ormai prossima e che per loro non c’è più speranza. Questo genere di reazione corrisponde a un certo schema del nostro sguardo da occidentali sulla situazione difficilissima che i cristiani stanno vivendo in quella terra. In realtà, però, quello è un popolo con un’energia straordinaria e una resilienza che è una lezione per il mondo intero. Dopo aver subito il sopraggiungere dell’Isis e la tragedia dell’esodo forzato, molti popoli, forse, si sarebbero semplicemente rinchiusi in se stessi. Nei campi profughi ci sono certamente persone depresse, persone che soffrono e che ogni notte sono perseguitate dagli incubi, ma tutto ciò non basta a spegnere lo slancio vitale della comunità dei cristiani iracheni. Come non essere impressionati dai panettieri che si alzano presto ogni mattino e lavorano in una calura opprimente per nutrire la gente del campo di Ashti? Come non vedere che la vita è più forte quando si scopre che dall’agosto 2014 sono stati più di 500 i matrimoni celebrati tra gli sfollati? L’Isis a forse conquistato le terre e i villaggi ma non ha strappato la fede dai cuori dei cristiani. Oggi la Chiesa in Iraq ha un dinamismo che molte diocesi d’Occidente vorrebbero avere.

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