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Sulla strada di Emmaus

Hélène Morlet
28 giugno 2016
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Sulla strada di Emmaus
Fra Salem sulla soglia del santuario di Emmaus Qubeibeh.

Nel villaggio arabo (e musulmano) di Emmaus-Qubeibeh, fra Salem Younes si occupa da solo del santuario che fa memoria dell'incontro dei discepoli con il Risorto.


Fra Salem accoglie i rari visitatori a Emmaus Qubeibeh in un cortile deserto. La torre quadrata del campanile della chiesa sfoggia con orgoglio la bandiera della Custodia di Terra Santa, mentre quella del Vaticano sventola sull’attiguo convento. Di fronte, l’imponente edificio rettangolare, oggi vuoto, ospitava un tempo gli studenti del collegio serafico, futuri possibili francescani. Dall’altra parte, il minareto della moschea si staglia sul cielo del villaggio.

Dalla costruzione del muro di separazione tra Israele e i Territori Palestinesi, il santuario di Emmaus ha visto la sua accessibilità ridotta al minimo. Distante 11 chilometri da Gerusalemme, deviazioni e check-point rendono oltremodo difficile il percorso. «Nei mesi migliori, accogliamo uno o due pullman di pellegrini», spiega fra Salem Younes ofm, guardiano e unico francescano del convento. La Custodia si prende cura del santuario sin dal XIX secolo, ma la sua frequentazione è calata drasticamente. Solo due volte all’anno torna a rianimarsi, quando i fedeli dei dintorni vi si recano in pellegrinaggio con i francescani: il lunedì di Pasqua e il 25 settembre, festa dei santi Cleofa e Simeone. Il cortile risuona allora di voci, il paesaggio suscita ammirazione e i sai marroni svolazzano al ritmo dei passi dei frati. Il padre Custode distribuisce dei pani alla fine della messa, poi l’assemblea condivide un grande pranzo conviviale nel giardino, prima che il luogo torni a immergersi nel suo abituale silenzio.

Ma cosa ci fanno ancora i frati della Custodia in questo villaggio musulmano, dove vive una sola famiglia cristiana? Prima di tutto vegliano sul santuario. La tradizione colloca qui il villaggio di Emmaus dove Gesù si fermò e spezzò il pane con due discepoli dopo la risurrezione (cfr Lc 24,13-34). La chiesa attuale risale all’inizio del XX secolo, ed è stata costruita sui resti di quella crociata e di un’abitazione di età romana attribuita a Cleofa, uno dei due discepoli. «Prendersi cura di questa chiesa e accogliere i pellegrini, anche se sono pochi, è la nostra missione, quindi rimaniamo», sottolinea fra Salem. «Ma dobbiamo anche vivere in mezzo alla popolazione e aiutarla per quanto ci è possibile – prosegue –. Quando san Francesco mandava i suoi frati a diffondere la Buona Novella nelle città, chiedeva loro di non parlare troppo, ma di essere testimoni con la loro sola presenza. Stare qui è anch’essa una forma di evangelizzazione. E ciò che l’esperienza di Emmaus ci insegna è la condivisione del nostro pane. Dobbiamo spartirlo con chi incrociamo nel nostro cammino, come hanno fatto i discepoli. Se si tratta di musulmani, come è il caso qui, allora è con loro che lo mettiamo in comune. È questo il significato del santuario: vivere come Simeone e Cleofa, creando uno spirito di fraternità nel villaggio».

Fin dal suo arrivo nell’antico seminario due anni fa, fra Salem si è avvicinato agli abitanti. «All’inizio eravamo in tre confratelli, ma in poco tempo mi sono ritrovato da solo in questi grandi edifici». Originario della Siria, il religioso arrivava da un periodo di sei anni trascorsi laggiù in una parrocchia, circondato da famiglie e da giovani, sempre molto impegnato, soprattutto nella pastorale. Per un francescano abituato a vivere in comunità, lo choc è stato piuttosto forte. «Vivere in solitudine non è facile, bisogna imparare. Con l’aiuto del Signore, è possibile. L’isolamento mi mette alla prova, ma mi rende anche più forte. Tutto ciò richiede di sapersi organizzare, di riuscire a convogliare le energie e di aprirsi agli altri».

Nel villaggio sono presenti anche tre comunità di religiose, al servizio della popolazione. Le suore del Catechismo vivono nel complesso francescano, dove gestiscono una scuola materna. Le suore di San Carlo Borromeo e le Salvatoriane, invece, si occupano rispettivamente di un dispensario e di un ospizio.

«Ho stretto dei legami d’amicizia con gli abitanti del villaggio – spiega fra Salem –. Tengono molto al santuario. Sono in molti ad aver lavorato per i frati in passato, o ad aver mandato i figli al nostro asilo. Diverse giovani coppie vengono qui per fare le foto di matrimonio. E i loro genitori, o nonni, mi raccontano di aver piantato tal albero o eretto tal muro… questo santuario fa parte della loro vita!».

Per fra Salem lasciare aperto per i visitatori il piccolo portale è un punto fermo. «La gente di qui vuole anche coltivare un rapporto sempre nuovo con i francescani. Ci si scambia gli auguri in occasione delle rispettive festività, si fanno due chiacchiere quando vado a fare la spesa, si beve un caffè. Tre famiglie mi hanno invitato a rompere il digiuno di Ramadan con loro. Vogliono bene ai frati, anche perché per loro siamo una risorsa. Ad esempio, quando ci sono dei lavori da fare (giardinaggio, manutenzione, imbiancatura) mi rivolgo sempre agli abitanti di Qubeibeh piuttosto che far venire degli operai da Gerusalemme o Ramallah. Anche loro, infatti, hanno il diritto di lavorare, anche loro hanno il diritto di vivere. Se non aiutiamo la popolazione locale, a cosa serve la nostra presenza qui? Non dobbiamo sostenere solo i cristiani ma anche i musulmani presso i quali ci troviamo a vivere». In effetti, in occasione della nostra visita ci imbattiamo in tre operai al lavoro nella chiesa per installare dei microfoni. Uno di loro condivide il pasto di fra Salem e di un sacerdote di passaggio; finisce prima per rispondere al richiamo alla preghiera del muezzin della vicina moschea, la cui voce entra dalle finestre della cucina prima che le campane della chiesa la coprano con il loro suono. Sorridendo, fra Salem ricorda: «C’è stato un periodo in cui le nostre campane non suonavano più e gli abitanti volevano sapere perché: ne sentivano la mancanza!».

La preghiera è un modo per riunire i credenti del villaggio. Di fronte all’entrata della chiesa, un piccolo giardino dedicato a Maria ospita una statua della Vergine protetta da una nicchia di pietra. Stranamente, è piuttosto recente. «Le vecchie donne di Emmaus, musulmane, venivano da me e mi chiedevano: “Abuna, dov’è la grotta di Maria?”. Ma io non lo sapevo! In passato ce n’era una, ma deve essere andata perduta, perché non c’era già più quando sono arrivato. Queste donne erano abituate a raccogliersi in preghiera alla grotta quando erano più giovani; sono molto legate a Maria». E fra Salem, come se si trattasse di una cosa ovvia, aggiunge: «Allora abbiamo costruito questa grotta».

Il religioso non sa quanto tempo potrà rimanere a Qubeibeh. La Custodia favorirà l’insediamento di una comunità femminile contemplativa (le Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento, già presenti alla Grotta del latte di Betlemme dal 2007), perché l’isolamento del villaggio possa finalmente essere utile. Quanto a fra Salem, sogna un maggiore dinamismo: «Potremmo organizzare dei corsi per i giovani del villaggio, per dar loro una possibilità di lavoro. Potremmo ampliare l’asilo o anche creare un laboratorio che ci permetta di vivere del nostro lavoro. Creare delle attività per la gente del posto genererebbe un circolo virtuoso, ridarebbe respiro a questi luoghi, li farebbe rinascere». Già l’estate scorsa, quattro gruppi di scout hanno piantato le tende nel giardino. Un buon modo di utilizzare il terreno facendone godere i cristiani di Palestina. «Quando i genitori sono venuti a prenderli, la maggior parte di loro si può dire che abbia scoperto questo posto: eppure si trova a 15 minuti di automobile da casa loro! Speriamo che pian piano altri gruppi di giovani vengano qui a svolgere le loro attività all’aria aperta».

L’invito è già arrivato a destinazione. Proprio in questi mesi estivi altri adolescenti stanno vivendo a Emmaus un campo estivo, facendo proprio il desiderio manifestato dai discepoli: «Resta con noi, Signore» (Vangelo di Luca, cap. 24, versetto 29).

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