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Il riavvicinamento tra Turchia e Israele

Giuseppe Caffulli
29 giugno 2016
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Lo choc dell'attentato di ieri all'aeroporto di Istanbul ha di fatto oscurato un evento di grande significato: l’annuncio, il 27 giugno, di un accordo tra Israele e Turchia dopo almeno 6 anni di crisi.


Il bilancio è tragico: «almeno 36 morti e 147 feriti», mentre scriviamo. Il commando che ieri, 28 giugno, ha fatto una strage e ha devastato l’aeroporto di Istanbul, secondo il primo ministro turco Bibali Yildirim, apparterrebbe allo Stato islamico. Tre militanti si sarebbero fatti esplodere tra la folla, altri (forse 5-6 persone) avrebbero sparato all’impazzata con dei fucili d’assalto AK-47.

Lo choc dei fatti di Istanbul (per i quali si è levata dall’Europa solo una tiepida condanna), ha di fatto oscurato un evento di grande significato: l’annuncio, il 27 giugno, di un accordo tra Israele e Turchia sul fronte della cooperazione militare e dei servizi d’intelligence, dopo almeno 6 anni di crisi, da quando cioè la nave turca Mavi Marmara, diretta a Gaza con aiuti umanitari e altre merci, venne intercettata in acque internazionali dalle forze di difesa israeliane.

Se il commando terroristico avesse davvero nel mirino l’accordo tra i due Paesi, o se sia una tragica coincidenza, non è dato sapere. Certamente la cosa è possibile, come del resto è possibile che si sia trattato di una risposta alle dichiarazioni (forse troppo enfatiche) del segretario alla Difesa degli Stati Uniti Ashton Carter circa la riconquista di Falluja, strappata appunto allo Stato islamico il 27 giugno scorso. Gli adepti del Califfo avrebbero in buona sostanza voluto far sapere che sono tutt’altro che in ritirata. E che anzi possono colpire in qualsiasi momento.

Sia come sia, l’accordo tra Israele e Turchia è certamente una buona notizia per i due Paesi, che vivono in questo momento una convergenza d’interessi strategici.

Intanto va detto che questa «riconciliazione» si inquadra nel contesto di un progetto più ampio, che dovrebbe ristabilire le relazioni anche con Egitto e Giordania.

Dopo la deposizione di Mohammed Morsi, presidente dell’Egitto ed esponente dei Fratelli musulmani, il Cairo ed Ankara hanno raffreddato di molto le loro relazioni. Recep Tayyip Erdoğan aveva di fatto preso pubblicamente le parti di Morsi e con l’avvento al potere di Abdel Fattah al Sisi, il gelo è proseguito, tanto che sono stati accantonati diversi progetti con il Paese delle Piramidi e con altri Paesi del mondo arabo. La riapertura delle relazioni con l’Egitto e la prevista cooperazione militare comporterà alcuni impegni: la Turchia dovrà perseguire i fiancheggiatori di Hamas nel Paese per impedire loro di foraggiare il terrorismo nella Striscia di Gaza. Allo stesso tempo si adopererà per contrastare i Fratelli musulmani ostili ad al-Sisi, e presenti dalle parti di Ankara. Insieme – e qui entra la partnership anche con la Giordania, che ha già un rapporto di cooperazione militare con Israele – i quattro Paesi si impegneranno per contrastare l’Iran e i suoi tentativi d’infiltrazione militare nella regione, attraverso la Siria e il Libano.

L’aspetto della cooperazione militare e dei servizi d’intelligence è sicuramente fondamentale per questi Paesi e risponde agli interessi del blocco sunnita, di cui l’Arabia Saudita è capofila in chiave anti-iraniana.

Ma nel quadro di accordi multilaterali che si prospetta, un elemento fondamentale è anche il controllo e lo sfruttamento delle fonti energetiche. In base all’accordo, Israele e Turchia inizieranno a breve i colloqui formali per costruire un gasdotto tra i due Paesi, attraverso il quale Israele potrebbe vendere il suo gas naturale, con l’assistenza turca, verso l’Europa.

Israele – nonostante fino ad un anno fa la strategia annunciata dal ministro dell’Energia israeliano Silvan Shalom sembrasse escluderlo – scommette su Ankara e ha bisogno di un mercato forte come la Turchia, oltre che di un canale di distribuzione verso i mercati europei, tramite i gasdotti che attraversano l’Anatolia. Ma anche di un atteggiamento non ostile da parte di Mosca, visto il ruolo che Putin si è ritagliato nella crisi siriana. Il progetto israelo-turco per un nuovo gasdotto, difficilmente potrebbe andare in porto senza l’avvallo di Mosca. Sarà forse per questo che il presidente turco Erdoğan, pochi giorni fa, ha inviato al Cremlino una lettera di scuse per l’abbattimento del caccia russo sconfinato dalla Siria il 24 novembre scorso. La crisi economica, accentuata tragicamente da fatti come quelli dell’aeroporto di Istanbul (che hanno determinato l’azzeramento del comparto turistico), certamente può aver indotto Ankara a cambiare strategia verso Mosca.

Ma c’è chi giura che in realtà, dietro il tardivo pentimento, ci sarebbe il grosso e grasso affare del gas israeliano.

 


Perché “Finis terrae”

Ogni paese e ogni popolo ha il suo Finis Terrae, un punto mitico o reale (spesso entrambe le cose), che indica la fine delle certezze e l’inizio di qualcosa di sconosciuto. Finis Terrae, letteralmente «ai confini della terra», è dunque per noi la metafora per esplorare storie di frontiera, per lasciarci alle spalle ciò che conosciamo e per inoltrarci in ciò che non conosciamo affatto o che comprendiamo di meno. In questo blog cerchiamo di indagare queste zone di confine in Medio Oriente per ricercare nuove chiavi di lettura e registrare piccoli, spesso impercettibili movimenti della coscienza.

Nella certezza che varcare le Colonne d’Ercole della consuetudine e lasciarsi interrogare dall’ignoto sia un esercizio vitale per costruire ponti verso una nuova civiltà.

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