Torna alla vita di tutti i giorni Lalibela, il villaggio etiope a 2.600 metri di quota, celebre per le sue undici chiese scavate nella roccia. Ormai sono rientrati alle loro case i pellegrini giunti da ogni dove nei giorni scorsi per la festa di Pasqua, che i cristiani ortodossi hanno celebrato il primo maggio.
Altrimenti detto Roha, Lalibela riposa nel fascino del suo misticismo. Deve tutto al sovrano abissino da cui ha preso il nome e che a cavallo tra il Dodicesimo e il Tredicesimo secolo fece realizzare i suoi suggestivi santuari. Il re la volle come una nuova Gerusalemme.
C’è la chiesa che celebra la Resurrezione di Cristo: Medhane Alem, dove viene conservato il grande Meskal, la croce ritenuta miracolosa che riluce in tutta la sua bellezza. Ci sono la casa di Maria (Beta Maryam), la tomba di Adamo, il Monte degli Olivi e perfino il Golgota. Nella valle sottostante scorre il Giordano e nelle cappelle tutt’intorno, scavate nella roccia, è un tripudio di angeli e arcangeli: Michele, Gabriele, Raffaele.
Poi c’è Beta Giorgis, la più bella: un tempio con pianta a croce greca, in perfetta solitudine. Attorno alla chiesa, che sprofonda per quasi 13 metri nella roccia, si aprono numerose caverne dove riposano mummificati antichi pellegrini. Secondo la leggenda, san Giorgio in persona avrebbe sorvegliato i lavori di costruzione della «sua» chiesa, lasciando impressa l’orma degli zoccoli del cavallo nella roccia.
Lalibela – raccontano i preti-guardiani – nasce da un sogno. Il villaggio di Roha, nella regione del Lasta, era la capitale del regno della dinastia degli Zagwe, che dopo il crollo dell’impero di Axum erano diventati i signori incontrastati delle terre alte. Qui nacque nella seconda metà del XII secolo, da stirpe reale, un bambino. Qualche giorno dopo la nascita il piccolo venne avvolto da uno sciame d’api senza che nessuno degli insetti lo pungesse. Venne battezzato con il nome di Lalibela, che significa «le api lo riconoscono come re». Salito al trono il giovane sovrano dovette fare i conti con frequenti intrighi di palazzo, scampando in più di una occasione agli agguati. Un giorno gli fu offerto del cibo avvelenato: Lalibela rimase tra la vita e la morte tre giorni e tre notti. Ma Dio lo salvò e, in sogno, gli affidò una missione: edificare una cittadella santa scavando la montagna. In 24 anni, grazie al lavoro di operai e artigiani fatti venire anche dall’Egitto, venne edificata dal nulla questa nuova meta di pellegrinaggi. Lo stesso re fondatore, venerato come un santo, vi riposa vegliato da schiere di devoti.
Dal 1978 il sito di Lalibela è tutelato dall’Unesco come Patrimonio dell’umanità.
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Alla Fondazione Terra Santa, a Milano, parleremo di Lalibela e di altre meraviglie d’Etiopia in un ciclo di incontri in programma tra fine maggio e metà giugno.