«Nessuna nuova, buone nuove». La voce di mons. Paul Hinder vicario apostolico dell’Arabia meridionale (Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen) fa trasparire un moderato ottimismo circa la sorte di don Tom Uzhunnalil, il salesiano indiano sequestrato da un commando estremista il 4 marzo scorso in Yemen, nel contesto di una strage jihadista che portò, ad Aden, all’uccisione di quattro suore Missionarie della Carità, la Congregazione fondata da madre Teresa di Calcutta, e di altre dodici persone, tra cui l’autista e almeno due altri collaboratori etiopi della comunità. Don Tom, l’unico sacerdote cattolico rimasto ad Aden, sarebbe stato prelevato dal commando mentre si trovava in preghiera nella cappella.
Il vescovo Hinder invita alla massima prudenza: «Non abbiamo elementi nuovi. Siamo in attesa e speriamo in bene». Fonti del governo indiano riportate dalla stampa internazionale riferiscono che il salesiano rapito in Yemen sarebbe vivo, e si sta lavorando per ottenerne la liberazione. Fonti cattoliche indiane, citate dall’agenzia Asianews, darebbero addirittura per «imminente» la liberazione del religioso.
«La situazione che abbiamo vissuto negli ultimi mesi è certamente drammatica, ma come Chiesa dobbiamo guardare anche agli aspetti positivi – annota mons. Hinder –. Negli Emirati Arabi Uniti e in Oman non ci sono problemi. Direi che la nostra vita ecclesiale procede. È chiaro che il clima generale legato all’allarme terroristico incide anche sulla nostra presenza: le misure di sicurezza sono un po’ più rigide che in passato, ma in maniera ancora discreta. Certo, le guerre in atto in Siria, Iraq e Yemen hanno un impatto anche qui. C’è timore che possano alimentare qualche focolaio locale».
Le autorità competenti sono molto attente nel monitorare possibili rischi per gli obiettivi considerati sensibili, incluse le chiese. «A seconda dei Paesi ci sono diversi livelli di sicurezza. In Qatar, per esempio, per entrare nelle chiese cristiane bisogna attraversare dei varchi con metal-detector. Altrove il controllo viene svolto attraverso numerose telecamere e un controllo del territorio da parte della polizia».
I fedeli del vicariato dell’Arabia meridionale sono per la quasi totalità cristiani provenienti da altri Paesi del Medio Oriente, dell’Asia e dell’Africa, con una pluralità di lingue, riti e tradizioni. «Nonostante la tensione provocata dai conflitti regionali, non abbiamo notato una diminuzione degli immigrati, benché la crisi economica si senta anche qui. In alcune parrocchie la frequenza è addirittura aumentata. Quella dei filippini, almeno negli Emirati Arabi Uniti, resta la comunità più numerosa; al secondo posto sono certamente gli indiani».
Proprio dall’India sarebbero in arrivo nuove Missionarie della Carità di Madre Teresa. «In Yemen le sorelle sono ancora a Sana’a e a Hodeydah. E per ora non hanno intenzione di lasciare il Paese – dice mons. Hinder –. Anzi, aspettano di tornare a Taiz, da dove se ne sono andate prima di Pasqua per motivi di sicurezza: si trovavano propria sulla linea del fronte tra esercito e milizie houthi. Le suore hanno pagato in questi anni un alto prezzo di sangue (già nel 1998 tre religiose erano state uccise a Hodeydah – ndr). La loro testimonianza di fede nello Yemen è davvero un esempio per tutti noi».