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Dan Caspi e il Muro dell’informazione in Israele

Manuela Borraccino
31 maggio 2016
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Dan Caspi e il Muro dell’informazione in Israele
Docente emerito di Comunicazione, Dan Caspi è una delle firme del quotidiano Haaretz. (foto Flash90)

Il prof. Dan Caspi, già docente di Comunicazione, descrive alla rivista Terrasanta, nel numero di maggio-giugno 2016, gli effetti degli stereotipi anti-arabi sui media israeliani. Eccovi l'intervista integrale.


«Nel corso del lungo conflitto arabo-israeliano la costruzione della barriera di separazione tra Israele e i Territori palestinesi è stata preceduta da sforzi congiunti per costruire un altro muro, un muro che fermasse il flusso di informazione sui palestinesi e influenzasse la gestione del conflitto», dice Dan Caspi, 71 anni, docente emerito di Comunicazione all’Università Ben Gurion del Neghev, membro in vari periodi dell’Autorità per le telecomunicazioni israeliana, firma di punta e oggi blogger del quotidiano Haaretz.

«Si può dire – osserva il prof. Caspi – che più si accorciava la distanza fisica fra gli avversari e più alti diventavano i muri di reciproca ignoranza. Negli ultimi anni, e soprattutto durante la Seconda intifada il pubblico si è trincerato dietro questo Muro dell’informazione: stampa, tivù e new media condividono grosse responsabilità per il suo mantenimento e per come una società introversa si è ritirata nel suo guscio con una scarsa conoscenza di quanto avveniva oltre la barriera».

Professore, quali sono i media in Israele che tentano di abbattere questo Muro?
Si dice che un esponente di primo piano del partito [di centro-destra] Likud abbia detto: «Non mi piace Haaretz per la sua ideologia [di sinistra], ma rimane l’unico quotidiano in Israele». Israel Hayom [il giornale più diffuso, distribuito gratuitamente con le sovvenzioni del re dei casinò e miliardario americano Sheldon Adelson – ndr] è totalmente schierato a favore del premier Benjamin Netanyahu. Gli altri due giornali maggiori, Yedioth Ahronoth e Maariv, devono trovare un terreno comune e assumere una posizione patriottica. Il servizio pubblico radiotelevisivo attualmente dipende dal primo ministro che è anche ministro delle Comunicazioni, mentre le due televisioni commerciali, Channel 2 e Channel 10, sono ostaggi degli share televisivi e non osano sfidare il consenso percepito. A quanto pare i media digitali non riescono ad offrire un’alternativa credibile rispetto ai media più popolari. I siti più visitati – YnetNews, Walla e Nrg – devono anch’essi allinearsi al consenso nazionale per paura di perdere lettori. Anche i siti più di parte, come Arutz Sheva per i coloni o Behadrei Haredim per gli ultra-ortodossi, non minacciano in alcun modo il Muro dell’Informazione. I gruppi più estremisti, siano di sinistra o di destra, mantengono molti siti di limitata diffusione, ma questi in generale si rivolgono ai loro adepti.

Lei vede dei cambiamenti fra i cronisti più giovani, quelli che scrivono per testate esclusivamente online?
Il fatto è che i pochi siti in inglese che pubblicano un’informazione integrativa ed opinioni che sfidano il consenso, come +972 Magazine o Al Monitor, non vengono quasi mai visitati dagli israeliani. In ogni caso il pubblico israeliano tende ad evitare di esporsi alla lettura di media stranieri o in altre lingue. Malgrado la disponibilità di una marea di tivù straniere satellite o via cavo in varie altre lingue, gli israeliani preferiscono informarsi attraverso fonti locali.

Il quotidiano Haaretz da due anni organizza due conferenze internazionali sullo stato della democrazia in Israele e sui negoziati di pace. È d’accordo con chi parla di «svolta militante» per il suo quotidiano?
Haaretz è sempre stato critico sulla politica del governo. Solo su Haaretz si può leggere quel che non viene pubblicato su altri media, ad esempio che lo scorso gennaio è stata indetta a Marrakech, sotto il patrocinio di re Mohammed VI, una conferenza del Forum per la promozione della pace nelle società islamiche che si è conclusa con una dichiarazione che condannava l’Isis e altre formazioni estremistiche. Più di tremila leader religiosi islamici si erano riuniti per discutere il futuro e il benessere delle minoranze religiose nei Paesi islamici. Gli altri media israeliani non solo hanno ignorato l’evento, ma hanno anche continuato a cavalcare una campagna di islamofobia, basata sull’assunto dello scontro di civiltà. Quasi tutti i media israeliani ad eccezione di Haaretz pubblicano i comunicati del governo nascondendo al pubblico qualsiasi cosa accada dietro il muro. Chiunque osi esprimere disaccordo con il governo viene considerato di sinistra, non patriota e talvolta persino anti-semita. I media principali, ancora una volta con l’eccezione di Haaretz, ripetono ad una sola voce il mantra governativo sul conflitto con i palestinesi: «Non abbiamo un interlocutore per la pace; Mahmoud Abbas non è un partner per i negoziati».

Lei parla anche dei «guardiani del Muro». Chi esercita oggi questa funzione?
Il Muro dell’informazione, come ogni altro muro, ha bisogno di supervisori che controllino il flusso e soprattutto la qualità dell’informazione disponibile al pubblico sui palestinesi. Oggi ogni testata ha il suo desk di Cronache arabe con almeno un caposervizio, un redattore e un commentatore. Ottengono le notizie da fonti dei servizi, che forniscono loro dei briefing su cosa accade oltre il muro, e perché. Solo pochi cronisti, come Gideon Levy o Amira Hass di Haaretz o Ohad Nemo di Channel 2, osano andare personalmente al di là del muro. Ma dubito che il pubblico sia interessato ai loro reportage. Un diplomatico egiziano ha ben descritto la situazione negli anni Sessanta, quando disse che i giornalisti israeliani sanno tutto sui Paesi arabi, ma non ne capiscono niente.

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