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Vite in bilico, tra Medio Oriente ed Europa

Anna Clementi e Diego Saccora
22 aprile 2016
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Vite in bilico, tra Medio Oriente ed Europa
Profughi nel campo di Idomeni al confine tra Grecia e Macedonia.

I cancelli d'Europa sono ormai sbarrati lungo la rotta balcanica. Una chiusura delle frontiere che provoca sgomento tra i migranti in Grecia e in Turchia. E molti dubbi sulla legalità del blocco.


«Quante persone servono per aprire nuovamente il confine?». La notizia circa la chiusura delle frontiere sancita dai Paesi all’interno della rotta balcanica provoca sgomento e paura, non solo tra i migranti appena sbarcati in Grecia ma anche tra chi è in attesa, lungo le coste turche. A Smirne regnano l’incertezza e l’indecisione: meglio partire intraprendendo quella traversata del Mar Egeo già mietitrice di troppe vittime, con la consapevolezza di essere poi rinchiusi in un centro di detenzione greco, oppure pazientare ancora in Turchia col timore però che la strada verso l’Europa venga sbarrata per sempre?

Nonostante il senso di impotenza e di spaesamento per la mutata situazione, un particolare sembra chiaro nella percezione delle centinaia di donne e di uomini in fuga dalla guerra: sono gli Stati a chiudere i confini, sono le persone, con il loro avanzare, ad aprirli.

Le voci, che già nel mese di dicembre si rincorrevano tra i migranti in viaggio, l’8 marzo sono diventate realtà: la Slovenia ha ufficialmente chiuso le proprie frontiere ed è subito stata imitata da Croazia, Serbia e Macedonia. Il campo di Idomeini, al confine greco-macedone, si è nuovamente trasformato in un non-luogo fatto di fango, tende e sogni infranti dove un’umanità disperata, alla sola ricerca di un posto sicuro dove poter ricostruire la propria vita, attende.

Dodicimila persone sospese nel nulla si rifiutano di pagare il costo del loro stesso trasferimento coatto verso un campo di detenzione greco, rimanendo lì, ferme e salde, a testimoniare il fallimento delle politiche europee.

Il 18 marzo scorso – nel corso di quella che da novembre 2015 è stata la terza riunione tra i Capi di Stato e di governo volta ad approfondire le relazioni Ue-Turchia e la crisi migratoria – il Consiglio Europeo ha approvato un piano aspramente criticato da molte organizzazioni internazionali, all’interno del quale sono state inserite disposizioni riguardanti: il respingimento in Turchia di tutti i migranti che non presentano domanda di asilo presso le autorità greche; il reinsediamento di un siriano (fino a un massimo di 72 mila) dalla Turchia all’Unione Europea per ogni siriano trasferito dalla Grecia alla Turchia; l’avvio del processo per la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi; il trasferimento alla Turchia di 6 miliardi di euro per progetti di sostegno ai richiedenti asilo e ai rifugiati.

Tanti i punti oscuri dell’accordo: cosa succederà se il numero dei respingimenti verso la Turchia sarà superiore a 72 mila? Cosa si intende per misura «temporanea e straordinaria”? Quale sarà il destino dei migranti intercettati in acque territoriali greche prima di raggiungere le isole elleniche? Ci sarà un’effettiva possibilità di chiedere protezione internazionale in Grecia o verrà adottata la strategia degli hotspots, già ben nota in Italia, tale per cui i migranti verranno suddivisi per nazionalità e subito respinti prima di poter fare richiesta di asilo? Ed infine: la Turchia è da considerarsi “Paese terzo” sicuro?

Molto chiara la posizione di Amnesty International, espressa in un comunicato stampa diffuso il 1 aprile, dove ha parlato di “difetti fatali” dell’accordo. Una ricerca svolta dall’organizzazione ha rivelato che da metà gennaio 2016, in aperta violazione del principio di non-refoulement (sancito dal primo comma dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 28 luglio 1951 – ndr), le autorità turche avrebbero espulso quasi quotidianamente almeno un centinaio di persone – tra cui donne e bambini – verso la Siria.

E mentre l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur o Unhcr, secondo l’acronimo inglese) e l’ong Medici senza Frontiere si ritiravano dal campo di Moria nell’isola di Lesbo, trasformato in un vero e proprio centro di detenzione immediatamente dopo la firma dell’intesa, la Grecia dava il via ai primi rimpatri di migranti verso la Turchia. Molto dure le parole di Giorgos Kosmopoulos, rappresentante per la Grecia di Amnesty International. «Nonostante le gravi lacune legali e la mancanza di una protezione adeguata in Turchia, l’Unione Europea sta portando avanti un accordo molto pericoloso. La Turchia non è un Paese terzo sicuro per i rifugiati. Le autorità dell’Unione Europea e della Grecia ne sono consapevoli e non hanno scuse».

Denuncia Eva Cossè, specialista di diritti umani dell’organizzazione Human Rights Watch: «La politica europea attuata dalla Grecia ha rinchiuso famiglie e tante altre persone che sono scappate da orrori come la paura dello Stato islamico, la minaccia talebana o le bombe del governo siriano. Quando le alternative alla detenzione esistono, come sulle isole greche, non c’è giustificazione legale o morale per tenere richiedenti asilo o migranti dietro le sbarre».

Sul terreno queste politiche restrittive e detentive hanno già avuto gli effetti che tanti leader europei desideravano: nella seconda settimana di aprile c’è stato un calo esponenziale del numero di sbarchi in Grecia – meno di 100 al giorno rispetto agli oltre 1.100 quotidiani di marzo – a cui è corrisposto un forte incremento nella percentuale di arrivi di pakistani e di nordafricani a discapito dei siriani, i quali preferiscono attendere in Turchia nella speranza che venga aperta un’altra via di accesso più sicura per raggiungere l’Europa.

Eppure le decine di migliaia di donne e di uomini bloccati in Grecia non sembrano ancora rendersi completamente conto del fatto che quella rotta balcanica, per mesi principale porta d’ingresso all’Europa, sia stata definitivamente sigillata e difficilmente verrà riaperta. Ed è sconvolgente ripensare a come da agosto 2015, per quegli stessi confini e luoghi, oggi diventati invalicabili, sia transitato quasi un milione di persone, che, con il proprio passaggio, ne ha modificato la morfologia e l’aspetto rendendo sempre più evidente agli occhi dei governi europei quanto sia ormai impossibile voltare la testa dall’altra parte, facendo finta di non vedere.

Idomeini, Gevgelija, Tabanovce, Presevo, Dobova, Slavonski Brod, Gornja Radgona, Sentilj, Radkersburg, Spielfeld: questi i nomi dei campi che rimarranno impressi nella Storia, tappa obbligata per i migranti lungo la rotta balcanica.



La corsa di Ahmed da Aleppo alla Germania

(a.c./d.s.) – «Ci abbiamo messo due settimane fino in Germania. Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia e Austria, una media di due giorni a Paese. Avevamo fretta, volevamo arrivare». Ahmed abbozza un sorriso mentre ripensa al suo viaggio verso l’Europa assieme alla madre e ai suoi tre fratellini.

«Abbiamo lasciato Aleppo quando l’aula universitaria dove stavo studiando è stata bombardata. Molti miei amici sono morti, io mi sono salvato, per miracolo. In quel momento ho capito che non avevamo più scelta: rimanere ad Aleppo avrebbe significato andare incontro a morte certa». Ahmed è tornato a casa, ha preso madre e fratellini e si è diretto verso la frontiera turca.

«Coi trafficanti è ancora facile entrare in Turchia. Abbiamo camminato di notte, nascosti tra gli alberi, e abbiamo varcato il confine. Da lì ci siamo subito diretti verso Smirne, senza perdere tempo, la Turchia non era un’alternativa di vita possibile», continua Ahmed.

Da Smirne si sono imbarcati verso le isole greche su un canotto gonfiabile assieme ad altre famiglie siriane. Una distanza di sole quattro miglia, un’ora e mezza di traversata, che nel 2015 ha ucciso più di 3.700 persone. «Siamo stati fortunati, il mare era calmo, con noi c’era un ragazzo siriano che sapeva condurre la barca. Da Lesbo tutto è stato frenetico. Siamo stati portati in nave fino ad Atene, da lì in bus, poi a piedi, poi in treno, da un campo all’altro, da un Paese all’altro. Non abbiamo dormito per giorni».

Le parole di Ahmed si fanno confuse: non ricorda il nome dei campi che ha attraversato, le lingue che ha ascoltato durante il viaggio. Giorno e notte hanno perso di significato, il concetto stesso di confine è venuto a mancare. Ricorda solo un flusso enorme di persone, di famiglie, di bambini, che camminavano assieme a lui. Un evento epico di cui Ahmed è stato protagonista.

Ora Ahmed vive assieme alla sua famiglia in un campo per richiedenti asilo in Germania. Ha cominciato a studiare tedesco e il prossimo anno vorrebbe iscriversi all’università per continuare gli studi. I suoi fratellini hanno già iniziato a frequentare la scuola e a conoscere nuovi amici. La madre, ancora disorientata, rimpiange la Siria di un tempo, ma è ben consapevole che quella di lasciare il suo Paese fosse l’unica scelta possibile.

Tuttavia la preoccupazione principale di tutta la famiglia è quella di non conoscere il destino dei loro parenti e dei loro amici bloccati in Siria e in Turchia. «Quando la Macedonia ha deciso di aprire i confini, tutto è cambiato: abbiamo smesso di annegare nel mar Mediterraneo nel disperato tentativo di raggiungere le coste italiane, abbiamo smesso di mettere a rischio la nostra vita e quella dei nostri figli. Ora invece, dopo questo accordo con la Turchia, tutto è tornato come prima, forse anche peggio. Quante persone ancora devono morire in fondo al mare prima che l’Europa cambi la propria politica?».

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