Il cessate il fuoco è entrato in vigore il 10 aprile e, anche se la strada è tutta in salita, forse questo è l’inizio della fine della terribile guerra che ha devastato lo Yemen per un anno e un mese. I colloqui in Kuwait, che hanno impegnato il governo formale del presidente Abe Rabbo Mansour Hadi con i suoi alleati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita compresa) da una parte, e i ribelli Houthi con il loro alleato Ali Abdullah Saleh, ex presidente dello Yemen dall’altra, dovranno passare agli snodi successivi. Che includono: le sanzioni, che gli Houthi rigettano, ordinate dalle Nazioni Unite su Saleh; il disarmo di tutte le parti in lotta; la governabilità e suddivisione del Paese, se federato in sei province o, più probabilmente, nuovamente diviso in Yemen del Nord e del Sud.
In ogni caso, la popolazione può tirare un parziale sospiro di sollievo, augurandosi che il cessate il fuoco sia reale e che venga rispettato da tutti. Tra i più di 7 mila morti e gli oltre 11 mila feriti, particolare e necessaria attenzione assumerà la crisi dei profughi in Yemen, sia quelli interni, sia gli appena emigrati e gli appena immigrati nel Paese. Sembra assurdo ma l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur o Unhcr) riferiva, a inizio 2016, che nel 2015, a guerra iniziata, sono arrivati in Yemen 92 mila migranti via mare.
Il dato è uno dei più alti tra quelli registrati annualmente nell’ultimo decennio di migrazioni nella regione, nonostante il conflitto. C’è un motivo sostanziale: lo Yemen è l’unico Paese della Penisola Arabica ad avere firmato nel 1951 la Convenzione delle Nazioni Unite per i rifugiati e ad avere sottoscritto il protocollo 1967 che, accettato da 139 nazioni, riconosce lo status dei rifugiati e garantisce loro aiuto e diritti sociali in attesa di protezione e asilo.
Già nel 2013 il presidente Hadi sosteneva che nel Paese vi fossero 2 milioni di rifugiati, tra cui centinaia di siriani. Secondo i dati a disposizione dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e dell’Acnur c’è una quota di esagerazione, ma è indubbio, ad esempio, che il campo di Kharaz, a Sud dello Yemen (36 chilometri da Aden) ospiti 17mila somali in fuga (più profughi di altre nazionalità) in uno spazio di 1.500 metri quadrati. Nel campo le temperature arrivano fino a 50 gradi.
I profughi somali che riescono ad arrivare fino alla capitale Sanaa solitamente si allogano in quartieri ghetto ma hanno buone speranze di sopravvivenza senza bisogno di mendicare: di solito praticano lavori umili (gli uomini si dedicano alla pulizia delle auto per due dollari a servizio; le donne curano la pulizia delle case per 200 dollari al mese) e sperano comunque di passare illegalmente in Arabia Saudita.
Questo spiega il perché i migranti – soprattutto somali – non abbiano lasciato lo Yemen e perché, nonostante la guerra, questo Paese venga sempre visto come una meta possibile. Il pericolo peggiore per i rifugiati somali, finora, è stato l’arruolamento forzato nelle file dei combattenti Houthi, quando i ribelli avevano bisogno di rinforzare le linee con altri uomini. Tuttavia, nell’ultimo anno, dallo Yemen si è sviluppata anche un’emigrazione a causa della guerra: più di 173 mila yemeniti hanno lasciato il Paese per trasferirsi nelle nazioni vicine, così distribuendosi: 51 mila in Oman, 40 mila in Arabia Saudita, 33 mila a Djibuti, 32 mila in Somalia, 11 mila in Etiopia, 6 mila in Sudan. Le condizioni degli yemeniti rifugiati in Somalia, Djibuti ed Eritrea sono difficilissime. In particolare, a Djibuti i 33 mila sono ospitati in un campo rudimentale, perennemente riscaldato dal sole a picco, e posizionato in una zona funestata da iene e sciacalli.