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Tacciono le armi in Yemen, terra di profughi

Laura Silvia Battaglia
26 aprile 2016
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Tacciono le armi in Yemen, terra di profughi
Una foto d'archivio del campo di Kharaz, in Yemen.

Se reggerà, il cessate il fuoco entrato in vigore il 10 aprile in Yemen potrebbe davvero por fine alla guerra che ha devastato il Paese per oltre un anno. E che ha alimentato flussi di profughi.


Il cessate il fuoco è entrato in vigore il 10 aprile e, anche se la strada è tutta in salita, forse questo è l’inizio della fine della terribile guerra che ha devastato lo Yemen per un anno e un mese. I colloqui in Kuwait, che hanno impegnato il governo formale del presidente Abe Rabbo Mansour Hadi con i suoi alleati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita compresa) da una parte, e i ribelli Houthi con il loro alleato Ali Abdullah Saleh, ex presidente dello Yemen dall’altra, dovranno passare agli snodi successivi. Che includono: le sanzioni, che gli Houthi rigettano, ordinate dalle Nazioni Unite su Saleh; il disarmo di tutte le parti in lotta; la governabilità e suddivisione del Paese, se federato in sei province o, più probabilmente, nuovamente diviso in Yemen del Nord e del Sud.

In ogni caso, la popolazione può tirare un parziale sospiro di sollievo, augurandosi che il cessate il fuoco sia reale e che venga rispettato da tutti. Tra i più di 7 mila morti e gli oltre 11 mila feriti, particolare e necessaria attenzione assumerà la crisi dei profughi in Yemen, sia quelli interni, sia gli appena emigrati e gli appena immigrati nel Paese. Sembra assurdo ma l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur o Unhcr) riferiva, a inizio 2016, che nel 2015, a guerra iniziata, sono arrivati in Yemen 92 mila migranti via mare.

Il dato è uno dei più alti tra quelli registrati annualmente nell’ultimo decennio di migrazioni nella regione, nonostante il conflitto. C’è un motivo sostanziale: lo Yemen è l’unico Paese della Penisola Arabica ad avere firmato nel 1951 la Convenzione delle Nazioni Unite per i rifugiati e ad avere sottoscritto il protocollo 1967 che, accettato da 139 nazioni, riconosce lo status dei rifugiati e garantisce loro aiuto e diritti sociali in attesa di protezione e asilo.

Già nel 2013 il presidente Hadi sosteneva che nel Paese vi fossero 2 milioni di rifugiati, tra cui centinaia di siriani. Secondo i dati a disposizione dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e dell’Acnur c’è una quota di esagerazione, ma è indubbio, ad esempio, che il campo di Kharaz, a Sud dello Yemen (36 chilometri da Aden) ospiti 17mila somali in fuga (più profughi di altre nazionalità) in uno spazio di 1.500 metri quadrati. Nel campo le temperature arrivano fino a 50 gradi.

I profughi somali che riescono ad arrivare fino alla capitale Sanaa solitamente si allogano in quartieri ghetto ma hanno buone speranze di sopravvivenza senza bisogno di mendicare: di solito praticano lavori umili (gli uomini si dedicano alla pulizia delle auto per due dollari a servizio; le donne curano la pulizia delle case per 200 dollari al mese) e sperano comunque di passare illegalmente in Arabia Saudita.

Questo spiega il perché i migranti – soprattutto somali – non abbiano lasciato lo Yemen e perché, nonostante la guerra, questo Paese venga sempre visto come una meta possibile. Il pericolo peggiore per i rifugiati somali, finora, è stato l’arruolamento forzato nelle file dei combattenti Houthi, quando i ribelli avevano bisogno di rinforzare le linee con altri uomini. Tuttavia, nell’ultimo anno, dallo Yemen si è sviluppata anche un’emigrazione a causa della guerra: più di 173 mila yemeniti hanno lasciato il Paese per trasferirsi nelle nazioni vicine, così distribuendosi: 51 mila in Oman, 40 mila in Arabia Saudita, 33 mila a Djibuti, 32 mila in Somalia, 11 mila in Etiopia, 6 mila in Sudan. Le condizioni degli yemeniti rifugiati in Somalia, Djibuti ed Eritrea sono difficilissime. In particolare, a Djibuti i 33 mila sono ospitati in un campo rudimentale, perennemente riscaldato dal sole a picco, e posizionato in una zona funestata da iene e sciacalli.

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