Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Separati alla nascita

Giuseppe Caffulli
7 aprile 2016
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A Jaffa, Hebron e Gerusalemme ebrei e arabi convivevano senza gravi tensioni fino al 1948, prima che nascesse lo Stato di Israele. Oggi si separano già nei reparti maternità ospedalieri...


Ci sono due notizie che colpiscono sulla stampa israeliana di questi giorni. Anzitutto il risalto dato alla pubblicazione in ebraico un libro il cui titolo suona «Vite in comune. Arabi ed ebrei a Gerusalemme, Giaffa ed Hebron» (uscito in edizione originale inglese nel 2014 con il titolo Lives in Common Arabs and Jews in Jerusalem, Jaffa and Hebron) nel quale si racconta come, prima dell’avvento del sionismo e dello Stato ebraico, nella maggioranza dei casi si vivesse insieme e senza grandi tensioni. L’autore – Menachem Klein – offre nel volume il ricco affresco di un mondo che è stato e che non è più: «Una vita condivisa da ebrei e palestinesi, in un arco di tempo che va dalla fine del XIX secolo all’inizio del XX. Le storie di due popoli uniti nella vita quotidiana, nel commercio, nell’educazione, nella gioia e perfino nel dolore. La dimostrazione, a dispetto di quanto capita oggi, che questo modo di vivere è possibile».

L’altra notizia è invece tragicamente inserita nel contesto dell’Israele di oggi: una serie di importanti ospedali israeliani attua una sorta di segregazione delle madri ebree da quelle arabe (e viceversa) nei reparti di maternità. Secondo le notizie raccolte da un reporter di Radio Israele, in alcuni ospedali la segregazione avviene in via non ufficiale; in altri casi è attuata soprattutto per volere dei pazienti. La motivazione che viene fornita è quasi sempre di ordine «culturale»: troppe differenze di mentalità e di approccio nei confronti della maternità (per le donne ebree osservanti, è prevista una normativa in fatto di purità/impurità nelle settimane successive al parto). «Cerchiamo di non mescolare, anche quando i pazienti non lo richiedono», si lascia scappare un’infermiera dell’ospedale Hadassah-Monte Scopus di Gerusalemme al microfono del giornalista.

Ma tra le motivazioni, anche nei reparti dove sboccia la vita, pesa la situazione del conflitto israelo-palestinese: «Meglio non avere nulla a che fare con la madre di un bambino che tra vent’anni vorrà uccidere tuo figlio», dice una delle voci registrate nel servizio radiofonico.

Il fenomeno della separazione delle donne ebree da quelle palestinesi in ospedali israeliani è tutt’altro che nuovo. Già nel 2006 il quotidiano Haaretz vi aveva dedicato un’inchiesta. Sei anni più tardi, nel 2012, il quotidiano Ma’ariv ne aveva parlato negli stessi termini oggi rilanciati da Radio Israele: nei reparti maternità questa prassi, pur negata ufficialmente, è largamente praticata negli ospedali di tutto il Paese.  Se ne è occupato anche il Parlamento, ma finora nessuno sembra voler prendere qualche provvedimento in merito.

Il tema della segregazione nella società israeliana oggi è tutt’altro che peregrino. Qualche anno fa, in occasione dell’inaugurazione della metropolitana leggera che attraversa Gerusalemme, gli ebrei ortodossi chiesero vagoni separati per arabi e donne. C’è poi un significativo grado di separazione tra la componente ebraica e quella araba nel sistema educativo, nell’accesso alla casa e ai servizi, alla giustizia e alle carriere, pur trattandosi di cittadini dello stesso Stato.

Nella Palestina di prima della nascita di Israele (per tornare al libro di Klein) c’era una identità condivisa tra ebrei, musulmani e cristiani, che (pur nei conflitti che non mancavano) si concepivano parte di una medesima cultura e di un medesimo contesto. Tanto che un ebreo sefardita (di cultura mediorientale) avvertiva più distante un correligionario aschenazita mitteleuropeo rispetto a un palestinese musulmano.

 


Ogni paese e ogni popolo ha il suo Finis Terrae, un punto mitico o reale (spesso entrambe le cose), che indica la fine delle certezze e l’inizio di qualcosa di sconosciuto. Finis Terrae, letteralmente «ai confini della terra», è dunque per noi la metafora per esplorare storie di frontiera, per lasciarci alle spalle ciò che conosciamo e per inoltraci in ciò che non conosciamo affatto o che comprendiamo di meno. In questo blog cerchiamo di indagare queste zone di confine in Medio Oriente per ricercare nuove chiavi di lettura e registrare piccoli, spesso impercettibili movimenti della coscienza.

Nella certezza che varcare le Colonne d’Ercole della consuetudine e lasciarsi interrogare dall’ignoto sia un esercizio vitale per costruire ponti verso una nuova civiltà.

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