Vilipendio alla religione, salta un ministro
Sono molti gli egiziani che continuano a subire incriminazioni per vilipendio della religione. Che si tratti di giornalisti, scrittori, ricercatori o semplici adolescenti goliardici, c’è sempre qualche cittadino zelante pronto a scatenare contro di loro l’accusa di insulto alla religione, con il sostegno della legge. Questa volta a cadere nella rete è stato un pesce davvero grosso: il ministro della Giustizia Ahmed al-Zend...
Sono purtroppo molti gli egiziani che continuano a subire incriminazioni per vilipendio della religione. Che si tratti di giornalisti, scrittori, ricercatori o semplici adolescenti goliardici, c’è sempre qualche cittadino zelante pronto a scatenare contro di loro l’accusa di insulto alla religione, con il sostegno della legge. Questa volta, però, a cadere nella rete è stato un pesce davvero grosso: il ministro della Giustizia Ahmed al-Zend. Il quale non è nemmeno un ministro della Giustizia qualunque, bensì il fortemente discusso ex presidente della Corte d’Appello del Cairo ed ex presidente del Club dei giudici dell’era Mubarak.
El-Zend è caduto in disgrazia venerdì 13 marzo, il giorno in cui è apparso in tivù per un’intervista con il giornalista Hamdy Rizq sul canale Sada al-Balad. Il ministro già si trovava in cattive acque, dopo che alcuni giornalisti di Al-Ahram Online e al-Masry al-Youm avevano pubblicato alcuni articoli, nel 2014, in cui lo si accusava di corruzione. Secondo i giornalisti, infatti, quando era ancora presidente del Club dei Giudici, el-Zend avrebbe venduto al cugino della moglie, per di più a un prezzo molto inferiore a quello di mercato, 500 metri quadrati di terreno che il governo aveva invece assegnato ai giudici per costruirci una biblioteca. Lo scorso gennaio, el-Zend si era vendicato, denunciando sei giornalisti, poi velocemente condannati a tre anni di prigione. Poiché, tuttavia, la Costituzione proibirebbe l’incarcerazione dei giornalisti, persino l’intervistatore acquiescente di el-Zend non ha potuto esimersi dal porre una domanda in proposito, alla quale il ministro ha risposto: «Farei incarcerare chiunque violasse la legge, anche se fosse un profeta».
La frase di el-Zend ha causato un putiferio. Non la prima parte, rivelatrice dell’uso personale e illiberale della giustizia per il quale el-Zend è noto, bensì la seconda, che è stata interpretata come un insulto al Profeta Muhammad (Maometto – ndr). El-Zend ha tentato di correre subito ai ripari in vari altri programmi televisivi, profondendosi in scuse e spiegazioni: «È stato un lapsus!», «Io sono un buon musulmano, entusiasta dell’idea di applicare la sharia, purché libera da interpretazioni estremiste». Ma a nulla sono valse le scuse, sui social media è immediatamente partita una campagna virale per le dimissioni del ministro. Gli islamisti, cui il passo falso di el-Zend, loro massimo nemico, è parso un miracolo, si sono naturalmente uniti di corsa alla campagna contro di lui, infierendo su tutto il governo e sul regime del presidente Abdel Fattah el-Sisi con l’accusa di empietà. Persino al-Azhar è intervenuta con un richiamo a non pronunciare invano il nome del Profeta. A sostenere el-Zend, solo il Club dei giudici e qualche predicatore, come Mazhar Shahin: i primi pronti soprattutto a difendere i propri privilegi, di cui el-Zend è sempre stato il paladino; i secondi rapidi nell’affermare che la caduta di el-Zend, caduto in un tranello di Satana, sarebbe stata una vittoria dei Fratelli Musulmani.
Nessuna difesa, però, è servita. Il clamore non si è calmato e la testa di el-Zend è caduta in due soli giorni. Dapprincipio, il primo ministro Sherif Ismail ha chiesto a el-Zend di dimettersi spontaneamente ma, al rifiuto di quest’ultimo, l’ha ufficialmente licenziato, secondo il quotidiano al-Shoruk su pressione del presidente el-Sisi.
El-Zend è il secondo ministro della Giustizia a cadere a causa delle proprie dichiarazioni, in seguito alla collera dell’opinione pubblica. Prima di lui, era caduto il suo predecessore Mahfouz Saber, per aver affermato che il figlio di un raccoglitore di immondizia non avrebbe mai potuto diventare giudice. Saber, tuttavia, aveva ceduto e si era dimesso, mentre il licenziamento di el-Zend apre una nuova questione legale. Secondo la Costituzione, infatti, il capo del governo può soltanto accettare le dimissioni di un ministro, mentre la sua destituzione va approvata dalla Camera dei Deputati. Difficilmente, in ogni caso, el-Zend subirà un processo per vilipendio della religione come è accaduto a persone meno illustri di lui.
La sua vicenda, comunque vada a finire, dimostra ancora una volta le distorsioni del dibattito pubblico egiziano, nel quale la religione è strumentalizzata e manipolata da tutte le parti, sia nel conflitto con gli islamisti, sia nei conflitti interni al potere, sia nelle piccole scaramucce della società. El-Zend non è stato licenziato perché ci sono prove concrete della sua corruzione, o per aver spesso abusato della sua posizione in vendette private contro i suoi oppositori, o per le sue numerose dichiarazioni del tutto inappropriate per un giudice, ma per un lapsus involontario che è stato interpretato come vilipendio alla religione. I sostenitori della democrazia sono stati costretti a scegliere fra difendere il principio di libertà di espressione e, al tempo stesso, un personaggio controverso e detestato che incarna perfettamente il regime, oppure restare in silenzio, rinunciando a ribadire questo principio per liberarsi di lui.