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Sdegno e vergogna in Yemen per il massacro delle suore ad Aden

Laura Silvia Battaglia
16 marzo 2016
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L’attacco del 4 marzo ad Aden, in Yemen, in cui quattro suore di Madre Teresa e alcuni laici sono rimasti uccisi, non è stato rivendicato da alcun gruppo terroristico. La comunità locale ritiene però responsabile la sigla yemenita dello Stato Islamico. Sdegno e vergogna in tutto lo Yemen. E una preghiera di solidarietà e suffragio anche in Terra Santa.


«Ogni qualvolta i bombardamenti si fanno pesanti, ci inginocchiamo di fronte al cuore di Gesù e chiediamo pace per questa nazione. A volte ci nascondiamo sotto le scale. Insieme viviamo, insieme moriamo con Gesù e Maria, la nostra madre». La lettera-testamento delle quattro missionarie della Carità uccise ad Aden, in Yemen, letta da suor Serena, della casa di Roma, e diffusa da Tv2000, la dice lunga sul vero spirito missionario, di coraggio e di abnegazione delle suore nei confronti dei loro “poveri” yemeniti, quasi tutti anziani e con disabilità.

L’attacco in cui le quattro suore sono rimaste uccise il 4 marzo scorso non è mai stato rivendicato da alcun gruppo terroristico, nonostante la comunità locale ritenga responsabile la sigla yemenita dello Stato Islamico. Anslem, Reginette, Judith e Marguerite, provenienti da Kenya, India e Ruanda, definite da Papa Francesco «martiri contemporanee», si spendevano per una comunità mista e variabile in un numero di 60-80 persone di tutte le religioni. Con loro è stata freddata anche una decina di volontari della casa-accoglienza, sia locali che provenienti dal Kenya; la superiora del convento, suor Sally, è salva (è riuscita a scampare al massacro nascondendosi in un frigorifero) ed è attualmente riparata nella casa delle missionarie in Giordania, mentre tuttora disperso è padre Tom Uzhunnalil, il sacerdote indiano salesiano presente al momento dell’attacco e sequestrato dagli assalitori. Devastata la cappella della missione, distrutto il crocifisso.

L’orribile attacco alla casa delle Missionarie della Carità ha suscitato reazioni prevedibili in Occidente, soprattutto da parte dei media cattolici. Il massacro ha avuto anche l’effetto di interessare – anche solo per un brevissimo arco di giorni – i media italiani alla guerra in Yemen. Ma ha prevalso sempre il cliché dello scontro sunniti-sciiti, dove le Missionarie della carità appaiono l’agnello sacrificale, l’elemento simbolico di chi non “sceglie” di patteggiare per nessuno dei due contendenti, ma sceglie la pace, soprattutto in nome del Dio cristiano.

Questa è però una lettura semplificata di una realtà nella quale non si dovrà ricordare mai abbastanza che, dal marzo 2015, sono soprattutto i civili yemeniti a fare le spese di una guerra terribile, con più di 7 mila morti e 11 mila feriti e dove, appena sia possibile intravedere una tregua o la cessazione delle ostilità (come è successo ad Aden o a Taiz) la popolazione subisce le ingerenze di gruppi locali, dei separatisti, e delle sigle più note di Aqap (Al Qaeda della penisola arabica) e delle wilayat (province) yemenite del sedicente Stato Islamico.

La morte delle quattro religiose non è passata inosservata ad Aden e in tutto lo Yemen. Centinaia di migliaia di persone hanno condiviso sui social le immagini terrificanti dei corpi senza vita delle suore, accompagnati da riflessioni di sdegno e vergogna collettiva. Il blogger Haykal Bafana, una delle voci più seguite di questa rivoluzione e che non nasconde la sua posizione filo-houthi e anti-saudita, a seguito dell’attentato è arrivato a proporre una soluzione radicale per minimizzare attacchi suicidi contro civili, governativi e strutture ospedaliere ad Aden: arrestare tutti gli affiliati a Islah, il partito dei Fratelli Musulmani yemeniti, «come hanno fatto gli houthi a Sanaa, in modo che non rimanga in giro nemmeno un potenziale attentatore».

Senza essere così radicali, però, i cittadini di Aden si sono fatti sentire: giovani attivisti, uomini e donne, il 5 marzo scorso hanno occupato l’area davanti al Dipartimento della Sicurezza ad Aden, esponendo la bandiera del partito separatista del Sud. Armati di cartelli che riportavano hashtag già diffusi in Rete (#standoinsilenzioliaiutateadespandersi, #coesistenza, #nonciterrorizzerete) hanno chiesto al dipartimento protezione per tutti i cittadini di Aden. In città, dal novembre scorso, sono almeno una cinquantina i morte in attacchi bomba suicidi contro convogli di autorità governative, check-point e altri obiettivi delle truppe della Resistenza popolare.

Infatti, la convinzione dei civili di Aden è che la ripresa di controllo da parte delle forze lealiste nel Sud stia dando spazio incontrastato ai gruppi terroristici, in particolare ad Aqap. La sigla qaedista della penisola arabica controlla da anni la provincia di Abyan, e ha appena conquistato Ahwar, una città di 30 mila persone sita tra l’importante porto di al Mukalla e la piccola città di Zinjbar, entrambe sotto il controllo di Aqap da mesi. La loro presenza – pericolosissima per i civili, letale per le truppe della Resistenza Popolare finora alleate alle lealiste e destabilizzante per ogni tipo di restaurazione del potere locale da parte dell’ex governo del presidente Mansour Abbo Hadi – è sempre più salda, grazie anche alle prebende distribuite a piene mani sui civili nelle aree da loro controllate (immagini su Twitter testimoniano la consegna ai civili di Al Mukalla di 23 milioni di Rial pro-capite, pari a 84 euro).

A questo quadro pericolante, si aggiungono le minacce della sigla locale di Stato islamico. Il giorno dopo la morte delle quattro missionarie della Carità, la wilaya (provincia) locale di Aden ha distribuito un comunicato (riprodotto nella galleria fotografica – ndr) in cui le donne del posto – peraltro già perfettamente abituate a indossare abiti castigati – vengono invitate «a vestirsi decentemente, altrimenti verranno fatte a pezzi».

 


 

Una Messa di suffragio a Gerusalemme

Venerdì 11 marzo, il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Fouad Twal, ha presieduto una Messa in suffragio delle quattro religiose della congregazione delle Suore Missionarie della Carità, assassinate in Yemen il 4 marzo.

Per l’occasione, la chiesa parrocchiale di San Salvatore, nel centro storico, era affollata da numerosi cristiani locali che hanno voluto testimoniare alle suore di Madre Teresa di Calcutta, presenti anche in Terra Santa, il loro affetto. Alla cerimonia hanno partecipato religiosi, religiose, ecclesiastici delle comunità greco-ortodossa, armena, siriaca, copta ed etiope, oltre al sig. Mahesh Kumar, rappresentante diplomatico dell’India in Palestina.

Tra i fedeli sedevano le Missionarie della Carità che operano a Nablus, Gerusalemme e Betlemme, riunite attorno alla madre provinciale venuta da Amman e alla superiora generale della congregazione, madre Mary Prema Pierick, arrivata da Calcutta (India).

Un grande manifesto con il sorriso di Madre Teresa, invitante alla preghiera, era appeso a sinistra dell’altare mentre, vicino alla balaustra, era collocata la fotografia delle quattro suore martirizzate: suor Anselme, dell’India; suor Judith, del Kenia; suor Marguerite e suor Reginette, del Ruanda.

La Messa, celebrata in arabo, è stata raccolta e partecipata ma senza tristezza. Nell’omelia, in inglese, il patriarca ha insistito sulla gloria del martirio e ha concluso dicendo: «Non vi presentiamo le nostre condoglianze, ma ci congratuliamo con voi per il dono delle loro e delle vostre vite, per tutto ciò che fate al servizio dei più poveri».

Le Missionarie della Carità sono arrivate nella diocesi di Gerusalemme nel 1970. Prestano il loro servizio a Gaza, Gerusalemme, Nablus e Betlemme. In Giordania sono presenti ad Amman, Ermaimim e Rusaifeh. Animano vari centri d’accoglienza per persone anziane, disabili fisici o mentali. Alcune di loro sono più impegnate nella visita alle famiglie, nel sostegno ai poveri o nell’animazione al catechismo domenicale.

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