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L’integrazione dei curdi in Turchia, naufragio di un sogno

Chiara Cruciati
22 marzo 2016
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L’integrazione dei curdi in Turchia, naufragio di un sogno
Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

La campagna militare in corso nel sud est della Turchia contro la minoranza curda non ha tregua. Il terribile attentato del 13 marzo ad Ankara (37 morti nell’esplosione di un'auto nel centro della capitale) ha riacceso le polveri. Ad Ankara è ormai disintegrato quel negoziato politico che dal 2013 ad oggi mirava a ridurre le tensioni con i curdi.


La campagna militare in corso nel sud est della Turchia contro la minoranza curda non ha tregua. Dopo che era stato allentato il coprifuoco nella città di Cizre e nel quartiere di Sur a Diyarbakir, le speranze di una fine delle operazioni si sono infrante dieci giorni fa: le autorità turche hanno imposto il coprifuoco su altre città, Sirnak, Nusaybin e Yuksekova, mentre si moltiplicavano i divieti per i tradizionali festeggiamenti del Newroz, il Capodanno curdo che cadeva il 21 marzo.

Dopo il terribile attentato del 13 marzo ad Ankara (37 morti nell’esplosione di una Bmw nel centro della capitale, in un’affollata stazione degli autobus) un nuovo assedio è stato annunciato su Diyarbakir, a seguito di scontri esplosi tra l’esercito turco e i combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk, considerato un’organizzazione terrorista anche dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti – ndr). Dopo neppure una settimana, un nuovo attentato: ad essere colpita sabato mattina è stata la via dello shopping di Istanbul, Istiklal Avenue: 5 morti e 3 feriti. L’attacco, inizialmente imputato al Pkk, è stato poi attribuito ad un miliziano turco dello Stato Islamico.

Il copione si ripete: dopo un attentato, le autorità turche puntano il dito subito contro il movimento indipendentista curdo. Le successive smentite non hanno, però, lo stesso eco delle accuse iniziali.

Si è così disintegrato quel negoziato politico fortemente voluto dal leader del Pkk, Abdullah Ocalan, che nel 2013 ordinò al braccio armato dell’organizzazione di deporre le armi a favore di una soluzione democratica e pacifica. La svolta pose fine a una vera e propria guerra civile, durata trent’anni e costata la vita a 40mila persone. A stracciare la tregua – che aveva visto l’autoesilio di migliaia di combattenti curdi sulle montagne di Qandil in Iraq – è stato il governo di Ankara: dopo il sorprendente risultato ottenuto dal Partito democratico dei popoli (Hdp) alle elezioni del 7 giugno 2015, un 13 per cento che apriva le porte del parlamento alla forza di sinistra pro-curda, il governo indebolito del Partito per la giustizia e lo sviluppo (l’Akp che ha come leader il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan – ndr) è intervenuto.

Un mese e mezzo dopo, una bomba esplodeva nella città curdo-turca di Suruç, al confine con la Siria, uccidendo 31 giovani turchi diretti a Kobane per portare medicinali. Da lì alla riapertura del conflitto con il Pkk, il passo è stato breve: il presidente Erdoğan ha lanciato la sua personale offensiva contro il terrorismo, infilando nella definizione sia lo Stato Islamico che ogni movimento indipendentista curdo. Le operazioni che ne sono seguite hanno però “dimenticato” gli islamisti dell’Isis e si sono concentrate quasi esclusivamente sulla minoranza curda, in Siria, in Iraq, in Turchia.

L’attentato del 13 marzo ha riacceso un conflitto mai sopito che negli ultimi mesi ha ucciso circa 300 civili: la Fondazione turca per i diritti umani ne contava 162 a metà gennaio, prima dei massacri a Cizre e Sur, dove i bilanci restano indefiniti. Un conflitto che ha visto intere città sotto assedio per due mesi, quartieri distrutti, strade divelte, scuole chiuse e ospedali al collasso.

Le vittime di Ankara, come spesso accaduto in passato, sono state ben presto strumentalizzate dal governo. Già poche ore dopo l’esplosione, i jet turchi bombardavano le postazioni del Pkk nel nord dell’Iraq, colpendo anche vilaggi civili, mentre a sud est riprendevano le operazioni militari: «La reazione del governo non stupisce, è allineata alle politiche che porta avanti – ci spiega Murat Cinar, giornalista turco – Si sono mossi come fecero un mese fa (dopo l’attentato che nella capitale uccise 27 membri delle forze armate – ndr): allora dissero che l’attentatore era un membro delle unità di difesa popolari dei curdi siriani (Ypg), e quando l’attacco fu rivendicato dal Tak, gruppo separatista curdo-turco, non è cambiato nulla nella strategia di Ankara: Tak, Pkk, Ypg, tutti vengono infilati nello stesso contenitore».

Cinar ne è convinto: il governo turco avrebbe potuto ottenere la pace, sfruttando l’apertura di Ocalan. Avrebbe potuto integrare la comunità curda nel sistema parlamentare, prevedere una forma di autonomia del sud-est che avrebbe stabilizzato il paese, lo avrebbe democratizzato. Ma non lo ha fatto, preferendo avallare le mire autoritarie e nazionaliste del presidente Erdoğan: «La popolazione curda non è un blocco unico e indivisibile: è divisa in classi, in comunità. Il settore più benestante non si è mai dimostrato particolarmente interessato all’autonomia, mentre chi ormai risiede a Istanbul e Ankara vive il conflitto indirettamente e ne subisce meno gli effetti. Ma chi vive a sud-est, nella regione a maggioranza curda, è sotto attacco giorno e notte». La dimostrazione che l’integrazione è la strada per la pace.

«Con il negoziato in corso e le elezioni del 7 giugno, la popolazione curda era davvero convinta di avere di fronte un futuro migliore – continua Cinar –. Lo stesso Hdp è nato come strumento per costruire un percorso di convivenza e integrazione, attraverso l’ingresso in parlamento. Si era disposti a rinunciare all’indipendenza. Ma la nuova campagna ha infranto i sogni curdi: immagino come sia vivere a Sur, a Cizre, dove bombardano costantemente, con amici e parenti uccisi, con gli elicotteri che volano ogni giorno sopra le case. Il messaggio che è stato mandato ai curdi è: la Turchia non vi vuole. È normale che si risvegli la voglia di separarsi, di intraprendere un percorso federalista o di indipendenza».

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