La banalizzazione dell'islamismo o l'identificazione fra Islam e terrorismo, sono rischi che non possiamo correre se vogliamo capire da dove venga la violenza dello Stato Islamico (Isis) e come affrontarla e sconfiggerla. Massimo Campanini, docente di Pensiero islamico e Storia dei Paesi islamici dell’Università di Trento, lo ribadisce in un colloquio con Terrasanta.net.
La banalizzazione dell’islamismo o, peggio ancora, l’identificazione fra Islam e terrorismo, sono rischi che non possiamo permetterci di correre se vogliamo capire da dove venga la violenza dello Stato Islamico (Isis), che cosa significhi per il Medio Oriente e per l’Occidente, come affrontarlo e sconfiggerlo. Massimo Campanini, docente di Pensiero islamico e Storia dei Paesi islamici dell’Università di Trento, lo ribadisce in un colloquio con Terrasanta.net dopo la ripubblicazione aggiornata di Islam e politica (Il Mulino 2015), un saggio di grande interesse nel quale analizza come le evoluzioni del pensiero politico islamico lungo quindici secoli di storia sembrino esser state messe in crisi dall’esplosione del terrorismo nel XXI secolo, con gli attentati dell’11 settembre, l’emergere del sedicente e sanguinario Stato islamico nel 2014 e probabilmente gli attacchi a Parigi del 2015. Tutte espressioni di una violenza irrazionale che rappresentano una distorsione più che un epilogo, afferma, dell’islamismo rivoluzionario. Al punto che, rimarca lo studioso milanese, «si potrebbe presumere che il jihadismo terrorista prefiguri un nuovo orientamento religioso che, pur prendendo le mosse dall’Islam, se ne allontani radicalizzandone gli aspetti più estremi».
Campanini ci tiene prima di tutto a chiarire che «la tematica dello Stato Islamico non ha un fondamento reale nel pensiero politico islamico classico». La rivendicazione del cosiddetto «Stato islamico dell’Iraq e del Levante» in Iraq e in Siria, al-Dawla al-Islamiya, da parte del sedicente califfo Abu Bakr Al-Baghdadi, sottolinea il professore, «afferisce ad un’espressione che nel pensiero politico islamico classico non esiste, non è mai stata formulata né utilizzata. Si può dire che soltanto negli ultimi 70-80 anni, con l’avvento dell’Islam politico e delle sue varie declinazioni nei diversi contesti dei Paesi a maggioranza sunnita o sciita, si sia riproposta l’antica idea del califfato o dell’imamato, come istituzione quasi sacrale dove viene implementata la Legge rivelata di Dio (la sharia) nei termini attuali dello Stato islamico, anche se rimane impregiudicata la forma istituzionale che esso dovrà assumere».
Oltre ad essere smentita dalla storia, Campanini spiega perché la pretesa del (presunto) leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, di proclamarsi califfo e di identificare il califfato nella formazione politica che ha tentato di imporre in Iraq e Siria non abbia fondamenti né legali né teorici. «Non ha fondamenti legali – rimarca – perché il califfo ideale deve essere Qurayshita (cioè appartenere alla tribù del Profeta Muhammad) e deve essere un ‘alim, cioè un dotto in scienze religiose riconosciuto dall’establishment: entrambe qualità che non si ritrovano in Abu Bakr al-Baghdadi. Costui, per quanto se ne sa, ha passato diversi anni nelle carceri irachene in quanto seguace del super-terrorista Abu Mus’ ab al-Zarqawi, leader a sua volta di una sorta di setta deviazionistica di al Qaida che, in contraddizione con la strategia qaidista di colpire il “nemico lontano” – gli Stati Uniti o Israele – scelse di privilegiare il “nemico vicino”, nella fattispecie gli sciiti iracheni (essendo Zarqawi fanaticamente sunnita). Le stragi di sciiti si sono moltiplicate in Iraq fino al punto che al-Zarqawi diventò scomodo per la stessa al-Qaida. Al-Zarqawi assassinato dagli americani (nel 2006 – ndr), ma (a quanto pare) fu “venduto” e “tradito” dalla stessa al-Qaida, che intese così liberarsi di un pericoloso irregolare».
Il Califfato poi «non ha fondamenti teorici perché rappresenta un arretramento sensibile rispetto alle aperture del pensiero politico islamico così come si è andato configurando nel XX secolo nelle varie declinazioni sunnite e sciite, e soprattutto perché il califfato ideale rappresenta l’unità, l’armonia e l’interna cooperazione della umma (comunità) musulmana, laddove l’Isis persegue la fitna, l’apertura di un dissenso, di una discordia interna, la lacerazione della comunità musulmana attraverso la manichea contrapposizione di credenti e miscredenti e la demonizzazione del diverso, attraverso l’esclusione delle minoranze protette (ebrei e cristiani). Quella perseguita da Al Baghdadi è dunque una strategia contrassegnata da una profonda aporia: se il Califfato deve unificare il mondo arabo, perché scatenare guerre civili in Siria, in Libia, in Yemen?».
Del resto, anche sulle circostanze della nascita ed efficienza dello Stato islamico (o Isis) gli interrogativi sono pesanti e tutt’altro che semplici da risolvere. «L’Isis – ricorda Campanini – emerge dal nulla nell’estate 2014 come “Minerva armata dalla testa di Giove”, ben addestrato e con una chiara strategia da applicare per l’instaurazione del Califfato universale. Chi l’ha veramente organizzato e armato? Perché la risposta occidentale alla sua minaccia, subito descritta come potenzialmente esiziale per il mondo intero, è stata per moltissimo tempo, incerta, titubante, quasi timorosa? Forse che la realtà dell’Isis era – ed è – funzionale a una strategia egemonica? Cui prodest l’Isis? Viene il sospetto che esso continui ad esistere perché fa comodo all’Occidente: perché una volta costruito il nemico si può alimentare l’islamofobia montante, opportunamente strumentalizzata da alcuni esponenti politici e alimentata dai mass-media (e da non pochi intellettuali) che identificano in mala fede Islam e terrorismo. Una volta costruito il nemico si può convincere l’opinione pubblica della necessità di chiudere le frontiere, si possono limitare le libertà civili nell’acquiescenza generale. Viene il sospetto che nel momento in cui l’Isis smetterà di far comodo all’Occidente, smetterà di esistere: del resto il presidente russo Vladimir Putin non ha forse dichiarato di recente che per debellare l’Isis dal punto di vista militare basterebbero quattro settimane? Io penso che per combattere il terrorismo, come si dice non senza retorica, sia necessario prima di tutto prendere consapevolezza delle finzioni, smascherarle, disarmarne l’efficacia politica nei nostri Paesi, per evitare di farsi manipolare».
«Una volta chiarito – chiosa il professore – che a livello giuridico e di ricadute pratiche l’Isis non può essere dichiarato Califfato, e che tale rivendicazione è priva di fondamento per gli stessi musulmani, bisogna cercare di capire che cosa sia realmente l’Isis, e come evitare di cadere nella trappola della banalizzazione. La “banalizzazione dell’islamismo” è un lusso che non possiamo permetterci se vogliamo combattere un fenomeno così complesso».
Fenomeno, ribadisce Campanini, che affonda le radici «non nell’intrinseca violenza dell’Islam, ma piuttosto nelle storture dei processi di decolonizzazione del Medio Oriente, nella ferita mai sanata dal punto di vista arabo della creazione dello Stato di Israele e della irrisolta questione palestinese, nella povertà in cui versa la maggior parte dei popoli arabo-islamici, nella storia decennale di regimi dittatoriali alleati con l’Occidente che hanno soppresso o impedito la nascita di associazioni e società civili forti».
Per questo, argomenta Campanini, anche la tesi accreditata dai media sulla presunta continuità – oltre che contiguità – fra al Qaida e Isis, appare il frutto di un’analisi superficiale, che non tiene conto di due dati di fatto: innanzitutto che l’Isis nasce indipendentemente da al Qaeda, e soprattutto al Qaida ha una storia ben rintracciabile, mentre l’Isis no. «Al Qaida – ricorda lo storico – nasce in seguito all’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979: dalla comparsa dei testi del palestinese ‘Abdallah ‘Azzam, il vero ideologo ispiratore di al Qaida, molto più rilevante dal punto di vista teorico di Osama Bin Laden, fino agli attacchi dell’11 settembre 2001, possiamo seguire sia l’evoluzione del pensiero jihadista sia la strumentalizzazione della religione e la distorsione del testo coranico per teorizzare la lotta armata, lungo un percorso che si snoda lungo 23 anni. Dopo di che al Qaida si avvia lungo una parabola discendente sia dal punto di vista ideologico che operativo. Possiamo ricostruire un’evoluzione sulla base di testi pubblicati, tradotti, analizzati, fino a vedere come oggi al Qaida, secondo me, praticamente non esista più, se non a livello simbolico, come marchio di fabbrica. Le formazioni che oggi si richiamano ad Al Qaida perseguono obiettivi eversivi locali e non internazionali (si veda Aqmi, Al Qaida nel Maghreb islamico, o al Qaida localizzata nella penisola arabica, soprattutto in Yemen, o al-Nusra per il pantano siriano). L’Isis invece non ha una storia: emerge dal nulla, senza aver seguito un percorso di formazione come al Qaida. E questo fa sorgere interrogativi inquietanti: perché non ha genealogia? Perché non esistono documenti sui quali indagare? Chi c’è realmente dietro?”.