Il cinema israeliano si congeda dalla 66.ma edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, che si è appena conclusa, con due prestigiosi riconoscimenti, ottenuti entrambi nella sezione Panorama.
Il premio del pubblico per il miglior film è stato assegnato a Junction 48, di Udi Aloni, regista oramai di casa al festival, in cui ha presentato tutti i propri film da tredici anni a questa parte.
Prendendo ispirazione dalla vita di Tamer Nafar, fondatore del primo gruppo rap/hip-hop arabo-palestinese, i DAM, e autore di canzoni quasi esclusivamente in lingua araba, Aloni racconta il conflitto fra gli ebrei e i palestinesi «a colpi di musica».
Un punto di vista decisamente particolare, anche se non completamente inedito, perlomeno per il pubblico dei festival cinematografici. I DAM, infatti, sono già stati protagonisti dei documentari Channels of Rage, di Anat Halachmi (premiato al Festival internazionale cinematografico di Gerusalemme nel 2003 e al Festival cinematografico di Israele nel 2005, ma visto anche al Festival Internazionale a regia femminile Sguardi Altrove l’anno successivo), e Slingshot Hip Hop, di Jackie Salloum, presentato in anteprima al Festival cinematografico Sundance di Robert Redford del 2008.
Inoltre, Aloni e Nafar avevano già lavorato a stretto contatto per il documentario Art/Violence, di cui Nafar è stato anche produttore, presentato e premiato alla Berlinale del 2012. Anche per questo, probabilmente, al regista è venuto spontaneo chiedere allo stesso Nafar di collaborare alla stesura della sceneggiatura e di interpretare il protagonista Karim.
La parte musicale del film si rivela decisamente ben costruita: rende conto in maniera obiettiva degli artisti israeliani che supportano le posizioni del governo (con un riferimento evidente ai rivali di Nafar nella scena musicale nazionale) e introduce anche la storia di Manar, la fidanzata di Karim, che vuole continuare a esibirsi nonostante l’opposizione della propria famiglia, di idee palesemente più conservatrici, e le minacce.
Purtroppo, molto meno approfondita è la caratterizzazione dei personaggi: gli ebrei inevitabilmente razzisti e violenti (e che cos’altro ci si potrebbe aspettare da chi parla dell’occupazione israeliana come di nuova apartheid e «pulizia etnica»?), i palestinesi e gli arabi essenzialmente compassionevoli e pacifici, anche quando le ruspe demoliscono la casa di un loro amico per fare spazio al Museo della Coesistenza. È vero, però, che la politica «in senso stretto» rimane una parte veramente piccola del film, che porta avanti anche una sotto-trama legata al mondo della droga.
Non meno importante, il premio del pubblico per il miglior documentario è andato a Who’s Gonna Love Me Now? di Tomer and Barak Heymann, la storia di Saar, un ebreo omosessuale ripudiato dalla propria famiglia ed emigrato a Londra.