Ad Istanbul una studentessa musulmana si avvicina timidamente, ma spinta da grande curiosità, a una chiesa cattolica. E via via coinvolge le sue compagne. Piccolo spiraglio di dialogo tra credenti.
Ogni mattina la vita della nostra piccola comunità domenicana ad Istanbul, inizia con la preghiera delle lodi e la celebrazione eucaristica alle 7.15; le porte del corridoio d’accesso alla chiesa, sono sempre aperte a favore di chi voglia unirsi a noi. Un anno fa, di questi tempi, scoprimmo che la scuola elementare e le medie pubbliche, di fronte al nostro convento, erano state trasformate in una Imam Hatip (scuola religiosa) femminile. La nostra prima reazione fu di disagio nel registrare una nuova pagina dell’erosione dell’eredità «laica kemalista», in favore di una rioccupazione simbolica e populistica dello spazio pubblico da parte del partito della Giustizia e dello Sviluppo (islamo-conservatore), ininterrottamente al governo del Paese dal 2001. La strada che scende dalla Torre dei Genovesi, più nota come la Torre di Galata, cambia rapidamente volto: un via vai di adolescenti per il 90 per cento fasciate nei consueti veli e soprabiti dalle lunghe maniche con, come sola concessione, colori spesso assai vivaci rispetto alla più tradizionale scelta monocromatica tendente al blu-grigio… Con il secondo anno di vita della nuova scuola, le studentesse prendono coraggio e iniziano a esplorare maggiormente anche il quartiere della scuola e non tardano timidamente ad affacciarsi sul cortile della chiesa. Il primo tentativo è decisamente maldestro: giunto a Messa ormai conclusa, un «piccolo gruppo di temerarie», quando mi vede apparire, fugge correndo senza lasciarmi il tempo di rivolgere una sola parola.
Qualche giorno dopo riesco ad anticipare una ennesima fuga timorosa, con un semplice «Hosgeldiniz, buyrun!» («Siate le benvenute! Prego entrate!»). Così si stabilisce un primo contatto con la più intraprendente, Nur (Luce), che anticipa le due compagne di avventura nel varcare la fatidica soglia di uno spazio che mai avevano frequentato in vita loro. La loro curiosità è non poco solleticata e le domande cominciano a fioccare. Spesso sono dei dettagli, per noi marginali, che attirano più l’attenzione: degli elementi iconografici, le statue, il fonte battesimale, le candele che si consumano lentamente… Nur memorizza le informazioni con curiosità e avidità e a partire dal giorno seguente, diventa lei stessa la guida di nuove compagne, selezionate in piccolo numero per scoprire con lei quel mondo, diverso ma in fondo accogliente, che parla di Dio, anche se, a volte, con enormità teologiche di non facile integrazione: il Dio trino e uno o il tutto nel frammento di una «presenza rinchiusa» nel tabernacolo! Una mattina, il gruppo delle «visitatrici» è particolarmente numeroso, almeno una quindicina. Mi mantengo discreto, per lasciare che la narrazione del luogo possa incarnarsi nel racconto delle visitatrici stesse. Ad un tratto un richiamo un po’ brusco, che viene dall’esterno: un uomo sulla sessantina, tenta invano di chiamare a raccolta il «piccolo gregge». È uno degli insegnanti della scuola, ma non osa varcare la soglia, pur tentando di capire dove sono finite le studentesse. Lo invito a entrare e dopo un po’ di esitazione inizia a osservare avidamente, ma cercando di non farsi troppo notare. Poi richiama le ragazze che lentamente si avviano all’uscita. Abbozzo la proposta di un incontro per spiegare alla scuola l’edificio architettonico. L’insegnante finge di non cogliere, ma all’uscita della Chiesa mi sussurra un «kolay gelsin», augurio di buon lavoro che è anche un implicito messaggio: «Ne riparleremo, grazie!».
Ecco una tappa imprevista, di un dialogo che è costruzione paziente di «un vicinato attento e rispettoso», premessa indispensabile per quel rispetto delle fedi che non esiste senza rispetto e incontro tra credenti!