C’è chi la chiama intifada e chi preferisce aspettare prima di etichettare la rivolta in corso tra Territori Occupati e Israele. Oltre agli attentati che si ripetono, a preoccupare oggi il governo israeliano è l’agitazione dei palestinesi con cittadinanza israeliana, che rappresentano il 20 per cento della popolazione. Abbiamo registrato il punto di vista di alcuni attivisti.
«Arresti arbitrari di giovani donne e uomini, repressione della libertà di espressione e di protesta, detenzione amministrativa, brutalità della polizia, violazione dei diritti degli arrestati, detenzioni per reato di opinione». La lista snocciolata dall’avvocatessa Suhad Bishara, dell’associazione legale palestinese Adalah, è lunga. Sono le misure prese nelle scorse settimane di proteste, e attentati, palestinesi in Cisgiordania e dentro lo Stato di Israele. D’altronde ancora ieri, 19 novembre, è stata una giornata particolarmente sanguinosa: cinque i morti – quattro ebrei (incluso un giovane statunitense) e un palestinese – in due differenti attacchi avvenuti a Tel Aviv e nei dintorni di Hebron, in Cisgiordania. I due responsabili palestinesi sono stati arrestati e le loro abitazioni saranno presto demolite come misura di ritorsione.
C’è chi la chiama intifada e chi preferisce aspettare prima di etichettare la rivolta in corso tra Territori Occupati e Israele. E se le manifestazioni e gli scontri sono frequenti a Gerusalemme e in Cisgiordania, a preoccupare oggi il governo israeliano è l’agitazione dei palestinesi con cittadinanza israeliana, che rappresentano il 20 per cento della popolazione: «È un errore fare differenze all’interno del popolo palestinese, un popolo unico al di là di confini politici e linee verdi – continua Suhad –. Oggi le politiche applicate ai palestinesi israeliani sono le stesse adottate per i palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Siamo vittime della stessa discriminazione: nel nostro caso parliamo di limitazione del diritto alla casa, all’uso della terra, una diversa distribuzione delle risorse naturali, dei fondi statali, dei servizi sociali e sanitari, violazione dei diritti culturali e religiosi».
Le proteste degli ultimi tempi hanno portato in piazza decine di migliaia di persone: 20 mila a Nazaret, 30 mila a Sakhnin, tante altre a Haifa e Akka. A mobilitarsi sono soprattutto i più giovani, adolescenti e studenti universitari, stanchi di vivere in uno Stato che non ne riconosce l’identità, mentre dall’altra parte del muro l’Autorità Nazionale Palestinese non li rappresenta e non li cerca neppure più.
La preoccupazione dei vertici israeliani è palpabile (amplificata negli ultimi giorni dall’allarme internazionale legato al terrorismo a marca Stato islamico). Ed è visibile negli strumenti di repressione della protesta. I controlli dei servizi segreti sono pervasivi, dalle intercettazioni telefoniche al monitoraggio dei social network. E in prigione si può finire anche per un post su Facebook: il caso più eclatante è quello del 19enne Anas Khateeb, arrestato il 16 ottobre scorso per «incitamento alla violenza e al terrorismo». Su Facebook aveva scritto: «Lunga vita all’intifada, Gerusalemme è araba». Il 27 ottobre la corte di Akko ha esteso la sua detenzione di un altro mese, uscirà probabilmente alla fine di novembre.
«Tali misure non sono nuove. Vengono applicate dal 1948, ma nell’ultimo mese c’è stato un inasprimento» – ci spiega Mohammad Kahba, attivista palestinese di Wadi Ara. Per esempio (dopo l’eccidio della famiglia Dawabsheh, il 30 luglio scorso, nel paesino di Duma, in Cisgiordania, da parte di terroristi israeliani – ndr), è stata introdotta anche in Israele la pratica della detenzione amministrativa finora applicata solo nei Territori Occupati, che prevede l’arresto fino a sei mesi (reiterabili di semestre in semestre, senza limiti) sulla base di un dossier segreto che non viene mostrato ad avvocati e detenuti. Ciò significa che, senza accuse ufficiali, non c’è nemmeno un processo.
«La gente in questo momento è convinta che il governo israeliano voglia innalzare il livello della tensione invece di ridurlo – aggiunge Mohammed –. La violenza della polizia, che spara senza ragione o quando sarebbe possibile agire diversamente, ha innalzato il livello dello scontro. Solo democrazia e uguaglianza tra cittadini potranno porre fine alle violenze».
Mentre manca un’autorevole leadership politica, a dare forza ai palestinesi cittadini israeliani è il coordinamento con chi vive al di là del muro, a Gaza e in Cisgiordania: «Molte manifestazioni vengono organizzate in cooperazione con i Territori nella totale assenza di una leadership: il desiderio di noi giovani è crearne una nuova, unita, che lotti contro le politiche israeliane di divisione. Vogliamo un nuovo progetto di liberazione che ci coinvolga tutti e uno Stato unico in cui i due popoli vivano insieme, in uguaglianza e democrazia, dal mare al fiume Giordano».
«Noi palestinesi del 1948, cittadini israeliani – conclude Mohammed – vogliamo mandare un messaggio: amiamo la vita, vogliamo vivere e non farci ammazzare. Vogliamo vivere, sì, ma solo se la vita che ci aspetta è fatta di dignità. Chi in questi giorni compie aggressioni e si fa uccidere dalla polizia, lo fa perché ha perso ogni speranza verso il futuro. Quello che è in corso oggi non è un conflitto tra due popoli, ma un conflitto tra un sistema coloniale e un popolo occupato».