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Dentro il voto turco

Chiara Zappa
4 novembre 2015
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Dentro il voto turco
Il presidente turco Erdoğan ha ripreso quota.

È una Turchia ostaggio della paura e dell’instabilità quella che, nelle elezioni parlamentari anticipate dello scorso primo novembre, ha deciso di riconsegnare il timone del Paese al Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) del presidente «sultano» Recep Tayyip Erdoğan. Una società tentata di richiudersi su sé stessa.


È una Turchia ostaggio della paura e dell’instabilità quella che, nelle elezioni parlamentari anticipate dello scorso primo novembre, ha deciso di riconsegnare il timone del Paese al Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) del presidente «sultano» Recep Tayyip Erdoğan. Un vero trionfo, con il 49,4 per cento dei voti, mentre i kemalisti del Partito popolare repubblicano (Chp) si sono fermati al 25,4 per cento, gli ultranazionalisti dell’Mhp all’11,9 per cento e i curdi del Partito democratico del popolo (Hdp) al 10,7 per cento. Un trionfo che ha sorpreso molti, visto che il partito filo-islamico, al governo dal 2002, al voto del giugno scorso si era fermato al 40 per cento delle preferenze, insufficienti per creare un esecutivo in autonomia.

Ma è proprio la tormentata fase politica di questi mesi, con il fallimento dei tentativi di formare un governo di coalizione, mentre la Turchia assisteva attonita al risorgere dei suoi peggiori fantasmi, ad avere spianato la strada al risultato di novembre. Una lunga estate infuocata aveva visto riaccendersi il conflitto con i ribelli curdi del Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan, che non fa solo lotta politica, ma anche armata – ndr), in coincidenza con la discesa in campo turca contro lo Stato islamico in Siria, su pressione della Nato. Una scelta riluttante e ambivalente, con i caccia turchi che da subito avevano bersagliato anche (e soprattutto?) le postazioni curde sul confine, nel nome dell’eterna ossessione di un’autonomia che potrebbe scivolare nel separatismo.

In questo contesto di estrema tensione si collocano i due sanguinosi attentati contro i sostenitori proprio del partito filo-curdo Hdp: quello di Suruç a luglio (32 i morti) e poi, a tre settimane del voto, quello di Ankara, con un bilancio ufficiale di 102 vittime. Un vero choc per il Paese, che viveva le ultime battute di una campagna elettorale all’insegna della censura e delle intimidazioni verso i media di opposizione. E mentre la pista governativa vede l’Isis dietro a questi attacchi, ciò che è certo è che lo scorrere del sangue ha terrorizzato l’opinione pubblica, convincendone buona parte a votare per la «stabilità». Ossia – secondo la retorica della maggioranza – per l’Akp di Erdoğan.

«Una novità rilevante dell’ultima tornata elettorale è lo spostamento di voti all’interno del tradizionale bacino di destra, dal partito nazionalista e altre formazioni più piccole all’Akp», nota lo scrittore e attivista Burhan Sönmez. Il che, tradotto, significa un preoccupante mutamento di pelle del partito del presidente, che incarna sempre più istanze arcaiche e oltranziste, distanti da alcuni valori pluralisti delle origini. Una dinamica che trova terreno fertile in una società imprigionata, dopo un decennio di prosperità, nei timori per un’economia che arranca, ma anche nella preoccupazione per la marea di profughi in fuga dalle guerre dell’area e riversatisi in massa oltre il confine turco: due milioni solo dalla Siria. E la tentazione è di richiudersi su se stessi.

Eppure, dal voto di novembre non arrivano solo segnali negativi. Il fatto stesso che la formazione filo-curda Hdp, pur perdendo un paio di punti percentuali, sia di nuovo riuscita a entrare in Parlamento (dopo la sua storica prima volta a giugno) era tutt’altro che scontato e lascia ben sperare. Soprattutto perché, nell’arena politica, porta anche la voce delle altre minoranze, di molti intellettuali, della parte di società civile più attiva sul fronte dei diritti civili e democratici. «Si tratta di interlocutori validi», conferma Laki Vingas, rappresentante delle 166 Fondazioni delle minoranze non musulmane di Turchia. Che sottolinea anche un altro risultato: «la riconferma in Parlamento di quattro esponenti cristiani. Per noi significa l’opportunità, preziosissima, di far sentire la nostra voce in sede politica».

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