Non fu l’assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, nel novembre 1995, ma i gravi errori compiuti subito dopo dai suoi successori al governo ad affondare il processo di pace con i palestinesi. Ne è convinto Daniel Bar-Tal, docente di Psicologia politica all’Università di Tel Aviv e tra i massimi esperti di psicologia sociale nello Stato ebraico. Intervista.
Non fu l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin – il 4 novembre 1995 – ma i gravi errori compiuti in seguito dai suoi immediati successori ad affondare il processo di pace tra israeliani e palestinesi. Daniel Bar-Tal, docente all’Università di Tel Aviv e tra i massimi esperti di psicologia politica in Israele, indica in Benjamin Netanyahu – l’attuale premier e all’epoca leader del partito di centro-destra Likud – il principale responsabile della fine del processo di pace e della deriva nazional-religiosa dell’elettorato israeliano negli ultimi vent’anni. «Le sue recenti affermazioni sul rapporto fra Hitler e il gran mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini non sono che l’ultimo passo per delegittimare i palestinesi come partner nel processo di pace e rafforzare l’odio nei loro confronti da parte degli israeliani», rimarca Bar-Tal in un colloquio con Terrasanta.net.
Professore, comunemente si pensa che il processo di pace sia morto con Rabin. Lei condivide questa opinione?
Io non penso che il processo di pace sia morto con Rabin, ma a causa di tutto quello che è stato messo in atto dopo la sua morte per distruggere ciò che era stato fatto. E il principale responsabile è il nostro attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, benché anche gli altri due governi laburisti di Shimon Peres e di Ehud Barak contribuirono ad affossare i negoziati. Certo, anche Arafat fu ambiguo: cercò di mantenere aperta la possibilità della lotta armata finché, come si vide quando le forze di sicurezza palestinesi collaborarono con quelle israeliane, non dimostrò che era in grado di fermare gli attentati. Ma la responsabilità del fallimento ricade soprattutto su Netanyahu, sulla sua azione congiunta di ideologo e di politico pragmatico.
Qual è stato il punto di non ritorno nel declino del processo di pace?
L’anno cruciale è stato nell’estate del 2000, quando Barak tornò da Camp David dicendo che «non c’erano interlocutori con cui parlare di pace»: così facendo egli distrusse lo schema dei negoziati che era stato utilizzato fino a quel momento, delegittimando Arafat come rappresentante dei palestinesi e togliendogli affidabilità come partner nei negoziati. Quello che è avvenuto in seguito, con la seconda intifada, l’ascesa della destra e la progressiva marginalizzazione della sinistra sionista in Israele, è la pura conseguenza di questa politica scellerata.
Lei ritiene che gli israeliani fossero pronti a fare concessioni, o gli Accordi di Oslo erano troppo ambigui per esser davvero realizzati?
All’epoca i sondaggi dimostravano chiaramente che Rabin era sostenuto dalla maggioranza della popolazione. Dopo i contraccolpi dell’intifada, eravamo stati preparati per anni alla prospettiva di una pacificazione con i palestinesi: sapevamo che c’erano le condizioni per trattare con l’Olp e cosa avrebbe comportato la pace. Ma se lei mi chiede se gli Accordi di Oslo fossero dei buoni accordi, la mia risposta è: no, non lo erano. Uno dei problemi più grandi era far accettare che le colonie sarebbero state evacuate. Rabin non uscì mai dall’ambiguità su questo. Non dimentichiamoci che era un membro di spicco del sistema; era stato ministro della Difesa durante l’intifada e non aveva esitato a reprimere anche con brutalità le rivolte. Negli anni di Oslo commise due errori: il primo fu quello di vietare ai negoziatori di mettere per iscritto il ritiro dalle colonie. Rabin diede la sua parola ad Arafat, nulla di più: gli Accordi restarono vaghi su un punto cruciale per la pace. Il secondo errore fu quello di non ordinare l’evacuazione degli ebrei da Hebron dopo la strage di 29 palestinesi perpetrata nel febbraio 1994 dal colono Baruch Goldstein. Egli temeva che i coloni avrebbero creato immensi problemi alla società israeliana. Oggi è tutto molto più difficile, soprattutto per l’influenza e le coperture politiche che hanno all’interno dello Stato. Bisogna avere l’onestà di dire che Rabin rimandò a oltranza la soluzione del problema delle colonie, che erano e sono ancora oggi il principale ostacolo per la pace, rimandando qualsiasi decisione a un momento successivo, che non arrivò mai.
Che ne è stato della «eredità» di Rabin, vista la profonda crisi della Sinistra sionista?
Non credo che si possa parlare di una vera e propria «eredità», che avrebbe dovuto esser raccolta dai laburisti. È vero che Rabin distingueva fra insediamenti di importanza militare, che sarebbero comunque rimasti nel territorio israeliano in uno scambio di terre come ad esempio Gush Etzion, e colonie che si sarebbero potute sgomberare. Ma uno dei suoi limiti è che non uscì mai dall’ambiguità sul destino delle colonie. Io stesso chiesi alla vedova, Leah Rabin, se il marito le avesse mai parlato di cosa intendeva fare nei Territori, come realizzare il ritiro dagli insediamenti non strategici per Israele. Lei mi rispose che non lo aveva mai sentito parlare di questo, come del resto non aveva fatto con i suoi collaboratori. Chi lavorò con lui assicura che Rabin sarebbe arrivato fino in fondo agli impegni che aveva assunto, anche riguardo al ritiro dai Territori. Ma non condivise mai con nessuno cosa avesse in mente circa il come e quando realizzarlo. La sua eredità, semmai, può esser ravvisata nel suo impegno di voler cambiare lo stato delle cose. Se si rileggono oggi i suoi discorsi, si vede che nessun premier aveva mai parlato come lui: emergono chiaramente indicazioni e un linguaggio diverso dal passato, il bisogno di un nuovo approccio. Alcuni suoi discorsi sono davvero commoventi.
Secondo lei la sfida alla politica pacificatrice di Rabin veniva non solo dalle frange estremiste dei territori, ma dal cuore stesso dell’establishment politico di Israele?
Non c’è dubbio: è proprio così. Come è stato dimostrato negli anni successivi all’assassinio, il Likud investì ingenti risorse finanziarie e dispiegò un enorme sforzo organizzativo per creare il contesto di odio e di violenza nel quale maturò l’assassinio a Rabin: quando Yigal Amir premette il grilletto, era sostenuto da una parte dell’estrema destra religiosa, che non solo non è mai stata messa fuori legge ma oggi gode di ampie coperture nel Parlamento, nell’esercito, nelle reti affaristiche del Paese. Netanyahu guidò l’opposizione al processo di pace in modo talmente vizioso da rendere l’assassinio pressoché inevitabile. I risultati si vedono oggi. Netanyahu arrivò al potere nel 1996 in seguito al terrorismo palestinese scatenato e alla pessima politica portata avanti da Peres e da Barak. Dal 2000 in poi la destra ha utilizzato tutte le armi in suo possesso per cambiare l’orientamento della maggioranza dell’opinione pubblica israeliana, fino a portare un uomo un tempo considerato di estrema destra come Netanyahu al vertice dello Stato.
Cosa ha reso possibile un cambiamento così radicale in appena vent’anni?
Il fatto è che vivere in una società ebraica israeliana significa essere portatori di una certa memoria collettiva e di una certa visione della vita a scuola, in ufficio, nell’esercito, in famiglia, nella sfera sociale. Per più di 25 anni, a parte il breve intermezzo del governo di Rabin, una coalizione di centro-destra ha governato Israele. Fino ai primi anni Novanta, il 40 per cento degli ebrei israeliani si definiva di sinistra. Oggi la percentuale non supera il 20 per cento. Il terrorismo da una parte e l’asserzione dell’ex primo ministro Ehud Barak dall’altra che «non c’è un partner palestinese per la pace» hanno contribuito ampiamente alla progressiva erosione dei sostenitori della sinistra e della pace. I nostri studi sui libri di testo e di educazione civica israeliani mostrano chiaramente che gli ebrei israeliani subiscono un processo di socializzazione e di indottrinamento dello spirito della destra fin dalla nascita. Essere un cittadino che ha delle idee di sinistra è considerato un tradimento: i leader della destra nel governo e nella Knesset hanno trasformato le loro idee politiche in un ethos che definisce l’identità dell’ebreo israeliano.
Come ha fatto Netanyahu in così poco tempo a far voltare le spalle alla visione di Rabin e a farsi eleggere per quattro mandati?
Netanyahu non è affatto uno ai margini: riflette molto bene le convinzioni ideologiche degli israeliani ebrei, e sa come usare i simboli e la nostra storia, come manipolare le paure e le emozioni per trascinare le persone verso la versione particolaristica tipica della destra e delegittimando la visione più universale e umanistica propria della sinistra. Negli ultimi vent’anni ha fatto di tutto per convincere gli israeliani di esser circondati da nemici; che non ci sia nessun partner per la pace, che la sicurezza sia la priorità: con il suo lavaggio del cervello sulle cospirazioni ora di Hamas, ora dell’Iran, ora di Hezbollah, ora degli arabi e dei loro collaboratori contro lo Stato di Israele, sull’Olocausto e sulla possibilità che accada di nuovo, non fa che alimentare il conflitto e la percezione di una minaccia imminente. È anche alla sua propaganda, e alla protezione assicurata in 48 anni ai coloni, che si devono il razzismo e la xenofobia crescenti, la violenza che il 30 luglio scorso ha sterminato la famiglia Dawabshah nel villaggio palestinese di Duma, la mancata applicazione delle leggi nei Territori, il lassismo di fronte alle azioni dei più radicali. Fino alle minacce di morte contro il presidente Reuven Rivlin e ai tentativi di delegittimare la Corte Suprema. Fatti di una gravità inaudita, inconcepibili vent’anni fa.
Cosa ha pensato quando, il 21 ottobre scorso, ha sentito Netanyahu asserire che lo sterminio degli ebrei non fu un’idea di Adolf Hitler ma del gran muftì di Gerusalemme?
Tutti i primi ministri israeliani, dai tempi di David Ben Gurion, hanno fatto uso della Shoah per vari obbiettivi politici, almeno nel Giorno della Memoria. Benjamin Netanyahu, però, ha perfezionato la strumentalizzazione della Shoah fino a renderla routine, collegandola spesso alla demonizzazione del nemico di turno: l’Iran, Hezbollah, Hamas… L’ultima sortita è stata per delegittimare i palestinesi in quanto tali, visto che per lui il gran mufti Haj Amin al Husseini rappresenta le loro aspirazioni nazionali. Lo ha fatto per indicare agli israeliani che nel Dna dei palestinesi c’è il desiderio di sterminare gli ebrei: è un tema ricorrente nella narrativa di Netanyahu. Nel collegare i palestinesi, Haj Amin al Husseini, Hitler e l’idea dello sterminio ebraico egli ha compiuto il passo finale per costruire odio e totale sfiducia da parte degli israeliani, così rigettando i Palestinesi come interlocutori nei negoziati.