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Verso la terza intifada?

Nizar Halloun
6 ottobre 2015
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Verso la terza <i>intifada</i>?
Manifestanti palestinesi fronteggiano i militari israeliani nella città cisgiordana di Betlemme il 6 ottobre 2015. (foto Flash90)

È salito, nelle ultime settimane, il livello della violenza a Gerusalemme e nei Territori Palestinesi. L’epicentro della crisi è la Spianata delle Moschee (il Monte del Tempio per gli ebrei – ndr), ma la tensione si propaga nelle vie di Gerusalemme e nell’insieme della Cisgiordania. Sono le prime avvisaglie di una nuova sollevazione palestinese?


Disegna una curva crescente, nelle ultime settimane, il livello della violenza a Gerusalemme e nei Territori Palestinesi. L’epicentro della crisi è la Spianata delle Moschee (il Monte del Tempio per gli ebrei – ndr), ma la tensione si propaga nelle vie di Gerusalemme e nell’insieme della Cisgiordania. Da domenica mattina, 4 ottobre, le autorità israeliane hanno proibito per 48 ore l’accesso alla città vecchia a qualunque palestinese che non vi risieda.

Nessuno degli avvenimenti degli ultimi mesi è un caso isolato: l’incendio doloso che il 30 luglio, nel villaggio palestinese di Duma in Cisgiordania, ha causato la morte di tre, su quattro, membri della famiglia Dawabsheh; il lancio di pietre su un’automobile che il 13 settembre ha causato la morte di Alexander Levlovich, di Talpiot Mizrach, un insediamento della Gerusalemme sud-orientale; la morte a Hebron di Hadeel al-Hashlamoun, uccisa dai militari israeliani il 22 settembre dopo aver estratto un coltello per minacciare i soldati; la morte di Eitam e Naama Henkin, due ebrei religiosi sionisti assassinati il primo ottobre non lontano da Itamar, un insediamento a est di Nablus, o l’attacco con pugnale, sabato sera 3 ottobre, che ha ucciso Aharon Banita-Bennet, un giovane ultra-ortodosso arruolato nell’esercito e il rabbino Nehemia Lavi, della Yeshivat Ateret Cohanim, organizzazione il cui scopo è di acquistare proprietà arabe a Gerusalemme per «ri-giudaizzare la città». Tutti questi eventi coinvolgono i coloni o gli insediamenti.

Dallo scorso sabato sera, almeno 150 palestinesi sono stati feriti da pallottole metalliche o da proiettili d’acciaio rivestiti di caucciù, afferma la Mezzaluna rossa palestinese. Vari scontri con i coloni e l’esercito israeliano sono avvenuti nelle città di Cisgiordana e nei quartieri palestinesi di Gerusalemme Est. Da domenica sono numerose le testimonianze che riferiscono di blocchi stradali organizzati nei Territori palestinesi da coloni israeliani intenzionati a vendicare le vittime dei recenti attentati.

Dall’inizio di settembre, il governo israeliano ha adottato varie misure atte a contrastare l’ondata di violenze. Il 9 settembre ha vietato le Mourabitat, una sorta di sentinelle (musulmane) sulla Spianata delle Moschee; il 20 settembre il gabinetto di sicurezza israeliano ha varato una serie di regole contro i lanciatori di pietre, inclusa la possibilità di ricorrere ai cecchini, a Gerusalemme, per «neutralizzarli». Al rientro da New York, dove il primo ottobre è intervenuto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha convocato il suo comitato di sicurezza, che ha approvato la decisione di rendere più celeri le demolizioni delle case dei «terroristi», una misura che viene ritenuta inutile dalle organizzazioni per i diritti umani e che rischia di produrre effetti opposti a quelli desiderati. Anche i fermi amministrativi illimitati, senza una formale incriminazione, si moltiplicheranno.

Sul versante palestinese queste misure generano sempre più odio. D’altronde il discorso pronunciato il 30 settembre all’Onu dal presidente Mahmoud Abbas non ha proposto soluzioni né per regolare il conflitto interno palestinese (tra le fazioni concorrenti di Hamas e Fatah), né per fare passi avanti sullo scenario regionale o internazionale. Gli analisti, al contrario, hanno interpretato il discorso come la confessione dell’impossibilità, da parte dell’Autorità Palestinese di continuare a mantenere il controllo dei Territori, sempre più sbriciolati. Se dovessero piombare nel caos, la situazione diventerebbe incontrollabile per l’Autorità Palestinese come per Israele.

L’intensità degli scontri delle ultime giornate ha gettato nuova luce su un recente sondaggio d’opinione realizzato su un campione di palestinesi alcune settimane orsono. Il 42 per cento degli intervistati reputa ormai che il mezzo più efficace per giungere alla soluzione dei due Stati sia la lotta armata. In un sondaggio precedente a pensarla così era il 36 per cento degli intervistati. «È chiaro che viaggiamo sul filo del rasoio e sono possibili nuovi sviluppi della situazione politica sul terreno», ha dichiarato Khalil Shikaki, direttore del Centro palestinese per la politica e i sondaggi, con sede a Ramallah. «All’inizio di questo secolo, i sondaggi attribuivano un sostegno contenuto alla violenza. La tendenza si è invertita. Oggi riscontriamo di nuovo un aumento. Basta una scintilla ormai, la situazione attuale si presta a un’esplosione di vaste proporzioni».

Ma le violenze in corso vengono considerate come una nuova intifada dai palestinesi e dagli israeliani? Il vocabolo «intifada» è diventato un termine generico, un concetto che si è relativamente allontanato dal suo significato originario. La sollevazione palestinese – l’intifada – è inizialmente una lotta, insieme personale e collettiva, della nazione palestinese per la propria indipendenza. Una sollevazione che si proietta nell’avvenire, ripone la sua forza nell’identità palestinese e nella solidarietà sociale, e punta in primo luogo a un cambiamento radicale. Benché la violenza di questi giorni sia ancora lontana dalle ondate che esplosero nel 1987 e nel 2000 (la prima e seconda intifada), il carattere caotico della situazione presente non basta a far parlare di sollevazione, perché essa non mira a cambiare le regole ma è l’espressione di un’esasperazione generalizzata.

Uno dei fattori che alimentano l’insurrezione presente o futura, potrebbe essere l’aumento dell’estremismo ebraico del tipo Tag Mehir («il prezzo da pagare»), come nel caso dell’incendio – rimasto impunito – alla casa della famiglia Dawabsheh. Sono attacchi contro siti religiosi cristiani e musulmani, ma anche ai danni di civili palestinesi in Cisgiordania; fatti che vengono poco, o per nulla, riportati dai media israeliani. Il declino dell’Autorità Palestinese, la sua parvenza di controllo sulla Cisgiordania e la fine del coordinamento sul versante della sicurezza, liberatoria per alcuni e devastante per altri, sono ugualmente fattori di instabilità. Nonostante le reciproche accuse che si sono lanciati durante i loro discorsi davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York (il 30 settembre e il primo ottobre), Netanyahu non si augura l’uscita di scena del presidente palestinese Mahmoud Abbas, più di quanto quest’ultimo sia disposto a lasciare il potere.

La Moschea Al-Aqsa è stata teatro dello scoppio della seconda intifada, allorquando, nel settembre 2000, Ariel Sharon – che di lì a pochi mesi sarebbe diventato premier – si recò sulla Spianata. Essa rappresenta più che mai un simbolo intoccabile per l’insieme dei palestinesi e ancor di più per i giovani che utilizzano le reti sociali per diffondere informazioni e notizie che la riguardano. Mohannad Halabi, il giovane palestinese che ha commesso l’attentato di sabato sera nella città vecchia di Gerusalemme, aveva come tanti altri commentato abbondantemente quelle che dal punto di vista dei musulmani sono «minacce ad Al Aqsa». Come molti altri giovani palestinesi, anch’egli esortava a reagire, concludendo il suo ultimo messaggio con: «Chiaramente la terza sollevazione è iniziata».

Sono in molti a pensare che israeliani e palestinesi siano alla vigilia d’una terza intifada, mentre altri ritengono che quelle di questi giorni siano violenze passeggere. Non c’è ancora modo di saperlo. La questione che si pone, alla luce della situazione politica attuale, è: per modificare lo status quo del conflitto israelo-palestinese una terza sollevazione è indispensabile?

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