Mentre scrivo, attentati terroristici e una spirale d’odio stanno sporcando il volto di Gerusalemme e di tutta la Terra Santa. Con l’amarezza nel cuore, ho pensato che avere di fronte agli occhi l’icona della Natività sia il modo migliore per provare a gettar luce sul buio che ci circonda, con quello sguardo di fede e speranza che il Natale sa donarci ogni anno.
L’ispirazione di talune scene e la presenza di alcuni personaggi non traggono la loro origine dai racconti evangelici, ma dagli scritti Apocrifi (testi della tradizione della Chiesa primitiva non ritenuti necessari da inserire nel Canone biblico, ma non per questo erronei o falsi). Tutto il creato è partecipe dell’evento: dalle nature angeliche agli animali, ogni cosa è al suo posto per recitare il dramma dell’Universo. Ogni elemento che è dipinto sull’icona assume un significato, niente è superfluo. Gruppi più o meno numerosi di angeli che cantano, volti al cielo e alla terra: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». Qualche volta hanno le mani velate in segno di adorazione dinanzi all’Essere Supremo. Essi rappresentano la natura angelica accorsa ad assistere all’evento straordinario. Nelle icone, fuori dalla grotta, è rappresentata la Madre di Dio; solitamente è distesa, qualche volta è seduta, in certi casi è inginocchiata. Il profeta Davide che per lei è divenuto antenato di Dio ha predetto in un canto rivolto a Colui che ha operato meraviglie in lei: «la regina sta ritta alla tua destra, poiché è la madre del re, colei che gode della divina confidenza». La Vergine solitamente non volge lo sguardo al Bambino, ma verso l’infinito e prova a custodire e riflettere in cuor suo tutto ciò che di straordinario è avvenuto in lei. La Madre di Dio è posta in prossimità del cuore della montagna; raffigura la luce emanante dal roveto del Sinai. «In esso, infatti, scorgiamo la premessa del mistero della Vergine dal cui parto è sorta sul mondo la luce di Dio. Questa lasciò intatto il roveto da cui proveniva come il parto non ha inaridito il fiore della sua verginità» (Gregorio di Nissa, dall’Inno Akathistos). Tra la Vergine e l’ingresso della grotta compare il Bambino, avvolto in fasce, posto più che in una mangiatoia, in un sepolcro dalla forma tradizionalmente squadrata e le pareti murarie.
Il Bambino è fasciato come un defunto. Il bendaggio a fasce incrociate o intrecciate richiama da vicino l’immagine di Lazzaro risorto, evoca cioè una figurazione mortuaria, che la mangiatoia-sarcofago contribuisce ad evidenziare. Le fasce sono per i pastori segno di riconoscimento del Bambino, come saranno il segno tangibile della resurrezione per le donne, Pietro e Giovanni davanti al sepolcro vuoto. Nella parte inferiore delle rappresentazioni, troviamo san Giuseppe e spesso dinanzi a lui un uomo rivestito di pelli, appoggiato ad un bastone (il tirso). Giuseppe impersona tutto il dramma umano: l’uomo davanti al mistero. La letteratura apocrifa ha attribuito a san Giuseppe un dubbio tutto umano e terreno, il dubbio dell’adulterio; e la figura pastorale che intrattiene visibilmente un dialogo con lui alimenta e conferma i pensieri del suo animo agitato, personificando la tentazione diabolica. Il pastore gli rivolge queste parole: «Come questo bastone non può produrre fronde, così un vecchio come te non può generare, e d’altra parte, una vergine non può partorire», suscitando così nel suo cuore una tempesta di pensieri contraddittori. Nell’antichità pagana, il tirso era un alto bastone, attributo tipico del dio Dionisio e dei suoi seguaci, satiri e baccanti, entità particolarmente rappresentative del paganesimo e del razionalismo sterile. Accanto al pastore o a san Giuseppe si scorge un arboscello che spunta da un tronco: «Un virgulto sorgerà dal tronco di Jesse, un germoglio dalle sue radici» (Isaia 11,1-2). Nella parte inferiore delle rappresentazioni vi sono due donne, Eva (la nostra prima madre) e Salome, che preparano il bagno del Bambino. Il gesto del bagno sta a sottolineare un’azione puramente umana e con essa la vera e non apparente umanità di Cristo. Ma nello stesso tempo è prefigura del battesimo: morte e discesa agli Inferi e Risurrezione a vita nuova. I pastori, i magi e gli animali non hanno bisogno di essere spiegati. Un’icona che raccoglie in sé tanti misteri e tanti insegnamenti; capace di porci davanti alla precarietà dell’evento e alla fragilità della fede richiesta per accoglierne la profondità. In un’era avvolta dal sospetto, dal dubbio nell’uomo e nel suo vicino, che questa grande Festa possa donarci la speranza necessaria per non fermare lo sguardo e il cuore al buio e all’apparente scoraggiamento, ma ci renda testimoni coraggiosi della luce che ci è donata e che ci pervaderà ogni giorno della nostra vita e per l’eternità.