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Pro o contro una nuova intifada, voci palestinesi a confronto

Mélinée Le Priol
16 ottobre 2015
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Pro o contro una nuova <i>intifada</i>, voci palestinesi a confronto
I palestinesi in rivolta sono soprattutto giovanissimi. (foto Abed Rahim Khatib/Flash90)

Insorgere o no? Tra i palestinesi la gamma delle opinioni è sconfinata, ma forse è possibile individuare alcuni elementi in comune. A scendere nelle strade armati di sassi, e non solo, sono soprattutto i giovanissimi. Per altri non l'intifada non è un'opzione valida. Abbiamo provato a delineare alcune linee di tendenza.


(Ramallah) – Chiedete ai palestinesi della Cisgiordania cosa ne pensino delle violenze omicide che dilagano da settimane in Terra Santa. La gamma delle risposte sarà sconfinata, ma forse è possibile individuare alcuni elementi in comune.

Una prima linea di tendenza. Qualcuno – con gli occhi che brillano, le parole che si inseguono rapide e il tono della voce che sale – vi dirà: «È la terza intifada». La vede così Zeina Ousini, 16 anni, raggiunta nel salotto di casa della sua famiglia a Nablus. «Questa è la volta buona – aggiunge -. Vinceremo e libereremo la Palestina». L’adolescente non è ancora scesa nelle strade (i suoi genitori sorvegliano a vista i cinque figli perché «non ne vogliono perdere nessuno») e tuttavia non nasconde il desiderio di prender parte alla sollevazione. «Anch’io vorrei attaccare i soldati israeliani prendendoli a sassate – assicura –. Voglio dar sfogo alla rabbia che ho dentro».

Come gli altri della sua generazione, Zeina non ha mai vissuto una guerra o un’intifada, ma conosce l’occupazione israeliana con il suo bagaglio di frustrazioni, di espropriazione di terre, di demolizione di abitazioni, e di angherie quotidiane da parte dei coloni e dei soldati… «I giovani sono i primi a soffrire le umiliazioni legate all’occupazione», osserva il giurista Anwar Abu, di Hebron. «Per un vecchio come me – dice lui –i check-point non sono una grande scocciatura. Ma un giovane non può sottrarsi ai controlli d’identità». Se l’intento era di uccidere in questi giovani la speranza o la voglia di resistere, l’esito non è scontato: eccoli lì a sognare la rivoluzione. In molti casi senza temere né la violenza né la morte.

Per questi giovani la parola intifada non è troppo ingombrante. Come i dirigenti di Hamas a Gaza, non hanno avuto paura ad evocarla con il montare delle violenze, il primo ottobre scorso. A differenza dei capi dell’Autorità Palestinese, che sono più cauti. Il termine viene mitizzato, con la sua capacità di evocare i ricordi delle precedenti sollevazioni palestinesi del 1987 e del 2000. «Questi ragazzi convivono con i fantasmi delle due precedenti rivolte», commenta Fadi Kattan. Nella sollevazione attualmente in corso il membro dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) riscontra varie analogie con la prima intifada, soprattutto per quanto riguarda l’abbigliamento: keffiah o magliette avvolte intorno alla testa, nascondono il volto di chi lancia pietre. La rivolta del 1987, osserva Kattan, «è sufficientemente lontana nel tempo da poter assurgere al livello di mito».

Seconda linea di tendenza: l’entusiasmo del vostro interlocutore è meno tangibile e la foga del discorso meno evidente, ma non manca l’appoggio al movimento della rabbia. È solo un poco più distaccato. Sono i palestinesi già più su con gli anni a vederla così. Coloro che lanciano pietre nelle strade hanno tra i 13 e i 20 anni. «Rispetto tutti questi ragazzi che sono scesi in strada», esordisce Mustafa, uno studente ventitreenne, calvo e un po’ rotondetto, dell’Università al-Quds. «Se avessi dieci anni di meno, mi batterei anch’io così! Ma non sono molto sportivo e neppure tanto agile».

Il quarantenne Assad, partecipa alle manifestazioni ogni giorno… da spettatore. «Sono troppo vecchio per lanciare pietre – dice – ma comprendo la sofferenza di questi giovani». Stessa musica da parte di Bakr, suonatore di oud (il liuto arabo) di 23 anni. «Questa sollevazione di certo non ci gioverà, ma bisogna dar sfogo alla collera».

Terza prospettiva: il tuo interlocutore palestinese scrolla le spalle e sospira. Per lui è chiaro: la violenza non risolverà niente. «Sarà una questione d’età!», ammette Anwar Abu Eisheh. «Quand’ero giovane credevo solo nella violenza rivoluzionaria e nella lotta armata, ma oggi sono contro ogni forma di violenza».

Quarta opzione: il palestinese che hai davanti non si accontenta di scrollare le spalle, ma batte il pugno sul tavolo. No, una nuova intifada non risolverebbe i problemi dei palestinesi. «Non siamo pronti – insiste Fadi Kattan -. Manca l’organizzazione a livello locale: nel 1987, una forma di organizzazione sociale alternativa poté funzionare durante la sollevazione, assicurando i servizi sanitari e l’istruzione, ma oggi è diverso. Non abbiamo neppure un obiettivo chiaro. Quale domani immaginiamo? E poi un’intifada ci farebbe apparire ancora una volta come dei terroristi agli occhi del mondo…».

«Si va incontro a morte certa!», aggiungono alcuni, che pensano alle pallottole metalliche utilizzate dalle forze armate israeliane contro coloro che gettano pietre (i morti sono già una ventina da metà ottobre), ma anche ai bombardamenti e alle massicce distruzioni subite in passato dalla Cisgiordania e da Gaza.

Ahmad, architetto di 25 anni, s’appresta a partire per la Francia dove finirà i suoi studi e cercherà il suo primo impiego. «Bisogna preservare queste vite e spenderle diversamente!», esclama. «L’intifada non è l’unico modo per liberare la Palestina». Ahmad preferisce una resistenza «all’occidentale»: attraverso l’educazione, il confronto, la condivisione di conoscenze. In ogni caso, prima di prendersela con l’occupazione israeliana, i palestinesi dovrebbero, secondo lui, cominciare a sbarazzarsi dell’Autorità Palestinese, «responsabile del nostro declino».

Altri, infine, rifiutano di «stare al gioco» di Israele, lanciando una nuova intifada. «Israele non cessa di strumentalizzare i luoghi santi di Gerusalemme», assicura Mustafa, quarantenne ricercatore di urbanistica e convinto sostenitore della laicità del suo paese. «Cercano di portare i palestinesi sullo scacchiere religioso per attirarsi le simpatie dei paesi occidentali spaventati dall’islam». «Dal momento che una nuova rivolta palestinese favorirebbe Israele – aggiunge Fadi Kattan – perché mai fargli un simile regalo?».

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