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Padre Jihad, monaco di Mar Musa: «Restare in Siria, una prova per la fede»

Carlo Giorgi
27 ottobre 2015
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Padre Jihad, monaco di Mar Musa: «Restare in Siria, una prova per la fede»
Un primo piano di padre Jihad Youssef.

«Ha un futuro la presenza cristiana in Siria? Se le cose rimangono così, prevedo che presto ci sarà una presenza simbolica di cristiani nel Paese. Un po’ come quella dei cristiani in Terra Santa, che sono oggi una percentuale irrisoria». Suonano amare le parole pronunciate sabato 24 ottobre a Roma da padre Jihad Youssef, monaco della comunità di Mar Musa.


«Ha un futuro la presenza cristiana in Siria? Se le cose rimangono così, se la comunità internazionale non decide davvero di cambiare politica, di abbandonare la logica del guadagno e degli interessi, prevedo che presto ci sarà una presenza simbolica di cristiani nel Paese. Un po’ come quella dei cristiani in Terra Santa, che sono oggi una percentuale irrisoria, forse l’1 per cento. E potrete andare in Siria come si va allo zoo, ad ammirare una specie in via di estinzione».

Suonano amare le parole di padre Jihad Youssef, monaco della comunità di Mar Musa, in Siria, che sabato 24 ottobre ha partecipato, a Roma, alla Giornata delle associazioni per la Terra Santa. Di fronte a un’attentissima platea, il religioso ha raccontato la vita della sua comunità in questi anni di guerra, condividendo impressioni, paure e speranze per il futuro dei cristiani arabi.

«Nel dicembre del 2013 la regione in cui si trova il nostro monastero, vicino alla città di Nebeq, è stata infiammata da una feroce battaglia – ha raccontato padre Jihad –. È stato un periodo di grande paura. Celebravamo la messa e pregavamo, pensando che in qualsiasi momento ci sarebbe potuto cadere un missile sulla testa. Il pensiero costante era: che senso ha rimanere qui? È così che, in comunità, abbiamo sperimentato concretamente la prova della fede. Abbiamo verificato cioè se la nostra fede riesce davvero a sostenerci; anzi, meglio, se abbiamo davvero fede. Crediamo davvero in Dio? Dio c’è? E, se c’è, cosa sta facendo mentre noi siamo sotto le bombe? Mentre bambini, donne e uomini lasciano le loro case… Mentre i fratelli, Caino e Abele, si uccidono? Dio dorme mentre Caino uccide Abele? Era come se qualcuno ci dicesse all’orecchio: “Voi siete cristiani… e dove sarebbe il vostro Dio?”. Dopo quella prova crediamo ancora? Sì, crediamo ancora. Però ogni mattina, ad ogni sorgere di sole, dobbiamo tornare a decidere di credere. E abbiamo deciso di rimanere, nonostante il pericolo. Non siamo rimasti per diventare martiri ad ogni costo; siamo rimasti in solidarietà con tutti. Dopo questa scelta, abbiamo visto negli occhi dei nostri parrocchiani a Nebeq, ma anche di tanti musulmani della città, la gratitudine. La nostra presenza per loro è un segno di speranza. Sia i cristiani sia i musulmani di Nebeq quando parlando di noi dicono: “I nostri monaci e il nostro monastero”».

A Nebeq, cittadina di 50 mila abitanti, vive una comunità cristiana di 3-400 persone. La comunità di Mar Musa, per venire incontro ai bisogni dei più disperati, con l’aiuto di tre organizzazioni cattoliche europee ha restaurato 63 case di famiglie cristiane e musulmane. Le necessità sono molte: Nebeq si trova a 1.300 metri di altezza e d’inverno fa freddo, ogni notte l’acqua ghiaccia. Serve il gasolio per riscaldare le case, ma il carburante, a causa della guerra, costa molto ed è un bene raro. Nessuno dei cristiani di Nebeq, nonostante tutto, in questi anni ha abbandonato la città.

«Rimanere o andare via? Cosa devono fare i cristiani della Siria? – si domanda padre Jihad –. Prima ero del parere che noi cristiani dobbiamo rimanere, perché il Medio Oriente non deve svuotarsi dei cristiani. Quando però ho avuto paura per la mia vita e per la comunità, ho capito chi lascia la propria casa. E dove trova la forza di lasciare tutto: la memoria, i ricordi, l’infanzia, i propri cari sepolti e in vita. Non giudico più nessuno e non dico più a nessuno di rimanere se non vuole rimanere. Anzi: bisogna aiutare a partire chi vuole partire. E degnamente: non prendendo la via del mare, non a piedi, per essere fermato alla frontiera dal filo spinato o dalle pallottole. E poi bisogna aiutare chi vuole restare a rimanere, in primo luogo con la preghiera, senza dubbio. Poi con aiuti materiali».

«Chi rimane ha, però, una vocazione. E qual è questa vocazione? – ha continuato padre Jihad –. Sapete che san Francesco va incontro al sultano el Khamil. E quando ritorna dice ai frati: “Ecco andate dai saraceni, siate sottomessi ad ogni creatura professando umilmente di essere cristiani”. Non dice di fare proselitismo ma di parlare quando lo Spirito Santo lo suggerirà. Noi di Mar Musa siamo consacrati all’amore di Gesù Cristo per tutti, ma in modo particolare per i musulmani e l’Islam. Il dialogo per noi non vuol dire guadagnare un numero di conversioni o convincerli che loro hanno torto e noi abbiamo ragione. Il dialogo invece è creare ponti, amicizia e armonia. Annunciare a tutti che vivere da diversi è possibile ed è anche bello. La Lettera agli Ebrei dice che Gesù ha imparato l’obbedienza da quello che ha patito. Quindi, anche noi, dalla nostra sofferenza vissuta in questi anni di guerra, se siamo aperti davvero alla grazia di Dio che abbiamo ricevuto nel battesimo, possiamo scegliere di rimanere in Siria e scoprire la nostra vocazione: amare e pregare per il mondo musulmano, per i musulmani che si ammazzano tra loro, che si odiamo tra loro. Non molti sanno che in Siria le vittime dello Stato Islamico (Isis) sono più numerose tra i musulmani che tra i cristiani. Certo se un cristiano finisce nelle mani dell’Isis è finita. Ma è finita anche per uno sceicco o un imam che non la pensa come loro».

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