In corso da anni, la campagna Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni (Bds) contro l'occupazione israeliana dei Territori Palestinesi ha saputo negli anni trovare varie sponde e vari sponsor. Uno su tutti l’Unione Europea.
L’argomento è spinosissimo. E suscita inevitabilmente passioni contrapposte. La sigla è Bds (Boicottaggio, disinvestimenti, sanzioni) e indica il movimento pacifista che, a partire dal 2005, si è attivato contro l’occupazione israeliana dei Territori utilizzando gli strumenti della resistenza passiva e della non-violenza.
La campagna Bds (che usa toni decisamente duri e perentori) ha saputo negli anni trovare varie sponde e vari sponsor. Uno su tutti l’Unione Europea, che già nel 2013 ha varato una serie di linee guida che proibiscono a Paesi membri dell’Unione e all’Unione stessa di «finanziare progetti ed enti israeliani che hanno luogo e/o sede nei Territori Palestinesi occupati».
Un nuovo successo della campagna è stato conseguito il 10 settembre scorso, quando, con 525 voti a favore, 70 contrari e 31 astenuti, il Parlamento europeo ha approvato una mozione che caldeggia l’introduzione di etichette differenti per le merci importate provenienti da Israele e per quelle prodotte negli insediamenti ebraici nei Territori palestinesi occupati e nelle Alture del Golan. Lo scopo è lampante: la decisione del Parlamento di Strasburgo darà la possibilità al consumatore europeo di sapere se un prodotto israeliano proviene dagli insediamenti illegali di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Golan e di decidere – anche in base a questa informazione – se acquistarlo o no. Quindi non un boicottaggio di tutta l’economia israeliana ma un «boicottaggio selettivo» che mirerebbe a colpire solo le aziende che operano nei Territori occupati e fanno profitto con merci e mano d’opera palestinese. Il caso eclatante è quello di alcuni prodotti agricoli della valle del Giordano venduti come prodotti d’Israele.
Per chi conosce anche solo in minima parte l’area, a proposito dell’etichettatura proposta dall’Ue è lecito nutrire qualche dubbio. La ragione principale è pratica: l’aggrovigliata matassa di rapporti e dipendenze che lega ormai Israele ai Territori sotto occupazione. Appare difficilissimo nel contesto israelo-palestinese separare ormai ciò che sta «al di qua» da ciò che sta «al di là» della Linea Verde.
E poi: se il prodotto è realizzato in Israele ma con materie prime provenienti dai Territori, come lo si etichetta? Mettiamo il caso che un prodotto sia interamente realizzato in Israele ma con manodopera palestinese (magari reclutata a giornata, come spesso purtroppo capita), o che un manufatto sia prodotto in Israele ma i rifiuti di lavorazione siano scaricati nei Territori, come ci si muove?
Si dirà: da qualche parte bisogna pure incominciare. Ma nel guazzabuglio del contesto israelo-palestinese d’oggi, la direttiva del Parlamento europeo rischia di essere un esercizio astratto (se non controproducente). In qualche supermercato europeo (come è capitato nella catena Cactus di Lussemburgo), finirà che non verrà venduta affatto verdura israeliana (per l’impossibilità di stabilire realmente dove sia stata prodotta). Con il risultato di danneggiare anche la già disastrata economia dei Territori e le famiglie di migliaia di lavoratori palestinesi impiegati nelle aziende agricole delle colonie.
Insomma, sembra difficile che questa mozione (che andrà tradotta in un regolamento) possa davvero portare i palestinesi più vicini all’indipendenza e alla libertà. Solo un’azione forte e convinta sia da parte delle istituzioni politiche (Europa in testa), sia da parte della società civile (come stanno facendo le donne israeliane e palestinesi) potrà riaprire il tavolo dei negoziati e offrire uno spiraglio alla pace.