In novembre ricorrono i vent'anni dall'assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Molto resta da dire su quell'omicidio e ne è ben consapevole il regista Amos Gitai, autore di Rabin, The Last Day. Il film è stato presentato in concorso alla 72esima edizione della Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia.
Nonostante siano trascorsi vent’anni, rimane ancora molto da approfondire sull’ultimo giorno di vita di Yitzhak Rabin, il primo ministro dello Stato ebraico assassinato in piazza dei Re di Israele, a Tel Aviv, il 4 novembre del 1995, al termine di una manifestazione a sostegno del processo di pace fra israeliani e palestinesi.
Ne è ben consapevole il regista Amos Gitai, autore di Rabin, The Last Day, presentato in concorso, a Venezia, alla 72esima edizione della Mostra internazionale di arte cinematografica.
A cavallo fra documentario e film, il racconto di quanto accaduto quella notte è affidato quasi esclusivamente alle riprese di Roni Kempler, il cameraman amatoriale che filmò il momento dell’attentato dal tetto del centro commerciale Gan Ha’ir, e alle immagini dei telegiornali che trasmisero in diretta dalla piazza e dall’ospedale Ichilov, dove il primo ministro venne subito trasportato.
Ricostruiti in studio, invece, sono la storia e l’interrogatorio dell’omicida, Yigal Amir, colono estremista di destra, e le udienze della commissione della Knesset (il parlamento israeliano) istituita per far luce sulle evidenti inefficienze dell’apparato di sicurezza che avrebbe dovuto vigilare su Rabin. Anche perché di segnali di pericolo ce n’erano stati a sufficienza: le fotografie del primo ministro con la kefiah o con l’uniforme della Gestapo nazista bruciate nelle piazze, le minacce di morte più o meno esplicite durante i comizi del Likud di Benjamin Netanyahu, la maledizione cabalistica della Pulsa de Nura («Frusta di fuoco») lanciata sul premier da alcuni rabbini, e un’indagine – alla fine archiviata – sulla sentenza di morte emessa dai grandi giudici rabbinici per il rodef («traditore») Rabin.
Sta qui il solo punto debole del comunque imprescindibile lavoro di Gitai: per quanto veramente approfondito, e decisamente originale nel suo volersi focalizzare sulle divisioni interne a Israele, affidare spiegazioni troppo lunghe e dettagliate ai monologhi non è di aiuto nel tentativo di mantenere costante l’attenzione.
Ad aprire e chiudere il film sono due interviste a Shimon Peres, all’epoca dei fatti ministro degli Esteri e subito dopo capo del governo, e alla vedova Rabin, scomparsa nel 2000.
Il primo si dice convinto che «senza l’omicidio di Rabin si sarebbe arrivati, se non alla pace, almeno a una situazione di stabilità». Rabin era «appena» riuscito a firmare un accordo con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat, a Oslo, il 20 agosto 1993, oltre a vedere riconosciuto il suo «straordinario coraggio» con il conferimento del premio Nobel per la pace l’anno seguente.
La moglie Leah racconta di un Rabin «fiducioso, che non avrebbe mai immaginato si potesse arrivare a un epilogo così selvaggio».
Gitai non nasconde la propria posizione: «Israele è anche la terra dei palestinesi, è necessario trovare una forma di convivenza». E ancora: «Israele è nato come progetto politico. Raccomanderei ai leader di attenersi a questo».