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Israele fa i conti col terrorismo ebraico

Giampiero Sandionigi
5 agosto 2015
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Israele fa i conti col terrorismo ebraico
Tel Aviv, 1 agosto. Manifestanti con le mani rosso sangue contro gli atti terroristici del 30 e 31 luglio. (foto Tomer Neuberg/Flash90)

Dopo due orribili fatti di sangue a fine luglio, Israele si misura con la realtà e affronta il terrorismo di matrice ebraica, fin qui sottovalutato. Giro di vite del governo ed esame di coscienza collettivo. È l'ora di isolare i cattivi maestri e di guardare in faccia i giovani estremisti sempre più violenti e spregiudicati.


I media israeliani raccontano che a fine luglio l’atmosfera nel Paese è cambiata. Due fatti di sangue – la cui eco è rimbalzata anche all’estero – hanno costretto l’opinione pubblica a misurarsi con la realtà. Ricordiamoli. Giovedì 30 luglio Yishai Shlissel un ebreo-ultraortodosso quarantenne, da poco scarcerato dopo dieci anni di detenzione per aver aggredito nel 2005 alcuni connazionali che partecipavano a una manifestazione di orgoglio omosessuale, decide di ripetersi. Infilandosi tra i partecipanti al gay pride che sfila per le vie di Gerusalemme, accoltella a caso chi gli capita a tiro. Sei persone rimangono ferite, una morirà pochi giorni dopo in ospedale: la sedicenne Shira Banki. La polizia – che presidia la manifestazione regolarmente autorizzata e alla quale Shlissel è noto – non sa impedire al criminale di irrompere tra i dimostranti e farne scempio.

Cala la notte e nel villaggio di Duma (nei Territori Palestinesi di Cigiordania, poco a sud della città di Nablus) alcune bottiglie molotov vengono lanciate da mani anonime dentro due abitazioni. Le fiamme sorprendono nel sonno gli occupanti e avvolgono subito i corpi di tutti i membri della famiglia Dawabsheh: il figlio più piccolo – Alì di 18 mesi – muore sul posto. I genitori e il fratellino più grande, Ahmed di 4 anni, vengono ricoverati in vari ospedali israeliani con gravi ustioni e lottano tra la vita e la morte. I probabili attentatori – benché ancora senza volto – sono ebrei estremisti. Anche stavolta hanno voluto lasciare la propria firma sui muri circostanti, disegnando con uno spray nero scritte d’odio nella loro lingua.

Per Israele, la mattina dopo, il risveglio è amaro e a molti risulta naturale mettere in relazione i due crimini. Il premier Benjamin Netanyahu esprime subito condanna per l’azione terroristica di Duma e chiama al telefono il presidente palestinese Mahmoud Abbas per esprimergli sdegno e solidarietà. Parole che non fanno breccia tra i palestinesi, ogni giorno alle prese con le ricorrenti angherie dei coloni che si installano sulle loro terre e dei militari israeliani inviati a proteggerli. Da Ramallah i dirigenti dell’Autorità Palestinese e del movimento laico Fatah battono due strade: per un verso, con i loro apparati di sicurezza, cooperano con Israele nel mantenere la calma in Cisgiordania; per l’altro annunciano l’invio di un dossier alla Corte penale internazionale per chiedere il suo intervento sanzionatorio. Da Gaza Hamas si spinge oltre ed esorta il popolo palestinese a sollevarsi e a colpire i coloni e i militari israeliani, considerati obiettivi legittimi delle rappresaglie.

Dal canto suo, il governo di Israele annuncia tolleranza zero anche nei confronti dei terroristi di casa propria. Vengono autorizzate le detenzioni amministrative a scopo preventivo, anche in assenza di una precisa imputazione, e altre misure già adottate per il contrasto dei terroristi palestinesi.

Ben presto appare chiaro che i responsabili politici – e forse anche gli apparati di sicurezza – hanno fin qui sottovalutato la minaccia e la pericolosità sociale dei movimenti estremisti dei coloni, quei «giovani delle colline» che – spesso ancora minorenni – si votano a vandalismi e attacchi incendiari contro chiese e moschee, ma anche sinagoghe, scuole e altri luoghi simbolo individuati come bersagli della loro campagna d’odio. Secondo le analisi ospitate dai media israeliani ci sarebbe un crescendo in questa pratica del terrore: si è cominciato con sfregi e graffiti, per passare ai danneggiamenti di proprietà e beni privati, fino ad arrivare agli incendi. Ora non ci si fa scrupolo di dare alle fiamme edifici che si sanno abitati, come accaduto a Duma, ma anche il 18 giugno scorso al santuario della Moltiplicazione dei pani e dei pesci a Tabgha…

Una barbarie che certo non tocca tutta la Terra Santa, ma che purtroppo non è inedita. In altre circostanze, però, è stata affrontata in ben altro modo. Sul quotidiano The Times of Israel del 3 agosto Judah Ari Gross cita un caso non così remoto: l’11 marzo 2011 due uomini si insinuano nottetempo nell’insediamento ebraico di Itamar – non lontano da Duma – e irrompono nella casa della famiglia Fogel, dove massacrano i due giovani genitori e tre dei loro cinque bambini. Il giorno dopo l’esercito israeliano circonda la città di Nablus e rastrella il villaggio arabo di Awarta, arrestando un centinaio di uomini. I raid notturni delle forze di sicurezza si susseguono per un mese e tutti i cittadini maschi vengono sottoposti a interrogatorio. Alla fine due cugini palestinesi, poco più che adolescenti, confessano di essere gli autori dello scempio. Nulla del genere è accaduto il 31 luglio scorso.

Una giornata in cui in Israele ognuno ha detto la sua. Il presidente Reuven Rivlin è intervenuto due volte nel giro di poche ore: prima si è rivolto ai cittadini arabi, poi ai partecipanti a una manifestazione svoltasi in serata a Gerusalemme. Le sue sono state parole tanto accorate quanto aspramente contestate da una parte dei suoi connazionali, non disposti ad accollare i crimini di qualcuno alla responsabilità collettiva.

Rivlin ha parlato di un senso di dolore e di vergogna per l’atto terroristico di Duma e ha proseguito: «Quanto chiediamo ai nostri vicini (…), a coloro che sono nostri nemici da oltre un secolo, e cioè la richiesta di mettere fine al terrorismo, dobbiamo chiederlo anche a noi stessi».

Nell’intervento al raduno serale, il presidente ha menzionato anche l’attacco al gay pride e altri crimini efferati d’epoca recente, citando poi un versetto del profeta Isaia (1, 15), che dà voce all’Eterno: «Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue».

«Ogni società – ha osservato Rivlin – contiene frange estremiste, ma noi oggi dobbiamo chiederci: cosa c’è nel nostro discorso pubblico che permette all’estremismo e agli estremisti di circolare a testa alta e alla luce del sole? Cosa consente a queste male erbe di minacciare la sicurezza di tutto il nostro giardino in fiore? Queste fiamme non possono essere estinte attraverso la repressione. Per spegnere l’incendio dobbiamo essere molto più determinati e decisi. Dobbiamo essere radicali e chiari, dal sistema educativo a chi è incaricato di applicare la legge, su su fino alla leadership del popolo e del Paese. Dobbiamo estinguere queste fiamme e contrastare l’istigazione (all’odio), prima che ci distruggano tutti».

Appare chiaro – ci sia concesso rammentarlo – quanto fossero sensati e pertinenti, negli ultimi anni, i ripetuti appelli dei capi religiosi cristiani rivolti alle autorità civili e agli educatori israeliani perché si facessero seriamente carico non solo della repressione in sede penale dei vandalismi contro i luoghi di culto – senza attendere che si giungesse a gesti estremi -, ma anche di una nuova pedagogia del rispetto e del dialogo indirizzata proprio ai giovani più estremisti e agli ambienti nei quali crescono. Imboccare questa strada, isolare i cattivi maestri e ridurre la violenza nelle menti, prima ancora che nelle azioni, è anzitutto nell’interesse di Israele.

Così come è interesse urgente dei popoli della Terra Santa esprimere dirigenti politici finalmente votati a dare pace e giustizia a quest’angolo di mondo.

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