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Il muro di separazione israeliano scalza gli ulivi a Cremisan

Chiara Cruciati
26 agosto 2015
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Dal 17 agosto i militari israeliani stanno sradicando decine di alberi, ulivi secolari di proprietà delle famiglie palestinesi di Beit Jala, villaggio a ovest di Betlemme, in Cisgiordania. Al loro posto sarà costruito il muro di separazione: dopo una battaglia legale di nove anni, ad agosto la Corte Suprema israeliana – ribaltando una sua precedente decisione – ha dato il via libera al ministero della Difesa.


«Oggi è un giorno triste, i lavori sono ripresi e stanno sradicando alberi di ulivo. Questa ferita, questo muro, non servirà a nessuno. A pagare sono le famiglie, persone semplici, che oggi sono qua a pregare per chiedere quella giustizia che la Corte Suprema di Israele non ha saputo dare. In questa decisione di democratico non c’è nulla». La voce di abuna Mario Cornioli, sacerdote italiano a Beit Jala, è coperta dallo stridere del braccio metallico dei bulldozer militari israeliani e dal rumore dei motori.

A pochi metri di distanza l’esercito israeliano, dal 17 agosto scorso, sta sradicando decine di alberi, ulivi secolari di proprietà delle famiglie palestinesi di Beit Jala, villaggio a ovest di Betlemme, in Cisgiordania. Al loro posto sarà costruito il muro di separazione: dopo una battaglia legale di nove anni, ad agosto la Corte Suprema israeliana – ribaltando una sua precedente decisione – ha dato il via libera al ministero della Difesa.

«Non c’è alcun motivo di sicurezza dietro la costruzione del muro nella valle del Cremisan, ma solo un furto di terre», aggiunge abuna Mario. Per questa ragione la popolazione di Beit Jala, sostenuta dalle Chiese cristiane della zona, continua a protestare. Da una settimana, da quando i bulldozer si sono presentati nella valle di Bir ‘Ona, cittadini, famiglie e sacerdoti si ritrovano su queste terre per manifestare e pregare insieme: mercoledì scorso i parroci hanno celebrato la messa sotto lo sguardo dei soldati israeliani, domenica lo hanno fatto di nuovo. Ma i militari non sono rimasti solo a guardare: alle proteste verbali dei residenti di Beit Jala hanno risposto con la forza, picchiando chi manifestava e arrestando due membri dei Comitati popolari della Cisgiordania.

Ma cosa è successo in questi ultimi mesi di scontro in tribunale? Da anni Beit Jala, con il sostegno del gruppo di avvocati israeliani della Società di St. Yves, ha presentato innumerevoli appelli alle corti israeliane, fino ad arrivare alla Corte Suprema, per chiedere che il muro non venisse costruito dove pianificato. Secondo il piano iniziale del governo israeliano, infatti, la barriera di cemento che già circonda la vicina Betlemme e la divide da Gerusalemme, dovrebbe correre a ridosso della comunità palestinese. Il risultato è chiaro: una parte della valle – ricca di alberi di ulivo e viti – finirà sul versante israeliano, praticamente inaccessibile alle 58 famiglie contadine proprietarie delle terre.

«L’obiettivo non è certo garantire la sicurezza di Israele – ci spiega il giovane attivista palestinese George Abu Eid – ma impossessarsi della bellissima e fertile Valle del Cremisan per permettere l’espansione delle due colonie israeliane che la circondano, Gilo e Har Gilo. A parlare sono le mappe del governo israeliano e i piani di allargamento dei due insediamenti, già sul tavolo da anni».

La minaccia alla Valle, già nota dalla metà degli anni 2000, è diventata concreta nell’ottobre 2010, quando il Comune di Beit Jala si è visto consegnare dall’Amministrazione civile (ente israeliano che gestisce terre e proprietà nei Territori Occupati Palestinesi) due ordini di confisca di 52 dunam di terre (un dunam è pari a mille metri quadrati): «La confisca – soggiunge Abu Eid – è volta all’espansione delle due colonie e alla costruzione del muro che nella nostra valle sarà lungo 11,7 km. Di questi 2,7 sono già stati costruiti. Il Comune di Beit Jala ha allora presentato un piano alternativo: per salvare le terre di proprietà palestinese, chiedeva a Israele di costruire il muro a ridosso delle colonie e non di Beit Jala».

Una proposta che era sembrata vincente il 2 aprile scorso, quando la Corte Suprema aveva imposto lo stop dei lavori e chiesto al ministero della Difesa di individuare un percorso alternativo per la barriera, che danneggiasse il meno possibile il villaggio di Beit Jala. «Come accaduto in casi precedenti, però, qualche tempo dopo, il 6 luglio 2015, la Corte ha ribaltato la sua stessa sentenza, accettando il vecchio piano israeliano e dando il via libera alla costruzione del muro. Tre settimane dopo, sono arrivati i bulldozer: hanno già sradicato oltre 100 ulivi secolari e livellato il terreno», denuncia l’attivista palestinese.

Beit Jala non intende arrendersi: attraverso la resistenza non violenta e il coinvolgimento delle Chiese cristiane, si sta appellando al mondo per fermare la costruzione del muro. «I nostri avvocati presenteranno una nuova petizione – conclude George – ma sarà difficilmente accolta. Quello che resta da fare è attirare l’attenzione internazionale: abbiamo preso contatti con Chiese, associazioni, organizzazioni in decine di Paesi del mondo. Anche il Vaticano ha espresso la sua contrarietà al piano. Solo con il sostegno esterno potremo salvare Beit Jala e la Valle di Cremisan».

 


 

Le voci contro

(g.s.) – Sono voci che probabilmente non influenzeranno le autorità israeliane, ma quello che sta accadendo sui pendii di Cremisan non lascia tutti indifferenti. C’è chi ha messo nero su bianco il proprio dissenso. Diamo conto di alcune delle voci che si sono espresse in questi giorni.

Il 10 luglio i rappresentanti diplomatici dell’Unione Europea a Gerusalemme e a Ramallah hanno emesso un comunicato per «esprimere profondo rincrescimento e preoccupazione per la decisione della Suprema Corte israeliana che il 6 luglio ha consentito la costruzione di un tratto della Barriera di separazione nella Valle di Cremisan. Se edificata, questa barriera limiterà drasticamente l’accesso di 58 famiglie ai loro terreni agricoli e comprometterà seriamente le loro capacità di sostentamento. Ciò comporterà anche ulteriori violazioni delle terre palestinesi circostanti Betlemme, una zona già gravemente interessata dall’espansione degli insediamenti e da una crescente pressione sulla popolazione palestinese che vive nell’area. Le missioni (diplomatiche) dell’Unione Europea a Gerusalemme e Ramallah rammentano che l’Unione Europea sottoscrive il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia (del luglio 2004) secondo il quale la costruzione della Barriera di separazione nei territori occupati è illegale». Espressioni ribadite anche il 19 agosto, dopo che le ruspe erano entrate in azione a Cremisan.

Dal canto suo il patriarcato latino di Gerusalemme – che da tempo affianca i cristiani di Beit Jala nella loro resistenza – ha espresso ferma condanna il 19 agosto contro l’azione delle ruspe israeliane a Cremisan, un’operazione che, sottolinea la curia patriarcale «è senza riguardo per i diritti delle famiglie della valle, diritti che quelle stesse famiglie hanno coraggiosamente cercato di difendere per vie legali nel decennio scorso. Ci uniamo al dolore e alla frustrazione di queste famiglie oppresse, e condanniamo senza mezzi termini l’ingiustizia perpetrata nei loro confronti. La costruzione del Muro di separazione e la confisca delle terre delle famiglie locali sono minacce e insulti alla pace».

Parole che riecheggiano quelle scritte già l’11 agosto dalla Conferenza episcopale del Sud Africa: «La costruzione della barriera sul territorio palestinese è verosimilmente illegale secondo il diritto internazionale; certamente pone ulteriori ostacoli sulla strada per la pace in Medio Oriente e contribuisce all’ulteriore destabilizzazione dell’intera regione. Noi crediamo che la pace possa essere raggiunta cercando la giustizia per tutti. La separazione dei popoli con muri e barriere non fa altro che dividerli ulteriormente esasperare e non contribuisce alla pace. Chiediamo a tutti i leader in Terra Santa di adoperarsi per la pace cercando la giustizia, e di mostrare misericordia e compassione reciproca».

Anche la conferenza episcopale cattolica dei Paesi scandinavi (Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia) si è espressa con un sintetico comunicato in luglio, nel quale fa proprie le espressioni di preoccupazione espressi dai diplomatici dell’Unione Europea a Gerusalemme e Ramallah.

Il 20 agosto mons. Patrick Powers, segretario generale della Conferenza episcopale canadese, ha diffuso un comunicato che esprime la delusione dei vescovi del Canada «per la recente decisione delle autorità israeliane» e «la preoccupazione per l’impatto negativo che essa avrà sui continui sforzi per assicurare pace, giustizia e sicurezza in Israele e Palestina».

Monsignor Oscar Cantù, vescovo di Las Cruces e presidente della Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale statunitense, ha investito della questione il segretario di Stato Usa, John Kerry, al quale ha inviato una lettera il 24 agosto. Dopo aver riportato il comunicato del patriarcato latino di Gerusalemme, mons. Cantù chiede a Kerry di «far pressione sulle autorità israeliane perché fermino i lavori del Muro di separazione, il cui tracciato determina la confisca di terreni privati palestinesi in Cisgiordania. Una simile azione compromette la causa della pace e pregiudica la possibilità della soluzione dei due Stati». Parole, quelle utilizzate da Cantù, che ricalcano le espressioni già più volte impiegate negli ultimi anni dal governo di Washington per denunciare l’espandersi degli insediamenti israeliani su terre palestinesi. Espressioni blande al punto di non aver scalfito le politiche degli esecutivi guidati dal primo ministro in carica Benjamin Netanyahu.

Dall’11 al 16 settembre si riunirà, per la prima volta, in Terra Santa l’annuale assemblea plenaria del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa. È assai probabile che anche i presidenti degli episcopati d’Europa verranno aggiornati sugli sviluppi di Cremisan e dicano la loro.

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