Quale bilancio possiamo trarre, da un punto di vista copto, degli ultimi due anni in Egitto? Nonostante una indubbia sintonia tra il presidente al-Sisi e il patriarca Tawadros, alcuni dossier non trovano soluzione.
Due anni fa, precisamente, il 30 giugno 2013, ritenendosi vessati dal sistema di governo a stampo islamico capeggiato dai Fratelli Musulmani, trenta milioni di egiziani scesero in piazza, in tutto l’Egitto, sotto la guida dell’allora generale (e oggi presidente) al-Sisi. Lo scopo? Ribellarsi ad un sistema che esaltava i valori del terrorismo e disprezzava quelli della Patria. L’esaltazione dei valori del terrorismo fu resa visibile dalla liberazione dalle galere egiziane dell’assassino del presidente Anwar Sadat e di altri suoi compagni; il disprezzo dei valori della Patria fu reso concreto dalla sponda offerta agli affiliati ad Hamas dentro il territorio egiziano del Sinai, registi di un traffico internazionale (anche di persone) che ha ottenuto la benedizione dei Fratelli Musulmani.
Se applicassimo le categorie della politica occidentale, il 30 giugno di due anni fa potrebbe essere considerato un vero colpo di Stato. Nella realtà si trattò di una sommossa popolare che ha trovato nella persona del generale al-Sisi una guida che ha saputo farsi carico del malessere sociale avvertito in tutto il Paese.
Sotto il regime dei Fratelli Musulmani (il cui leader Mohammed Morsi il 16 maggio scorso è stato condannato a morte dal tribunale penale del Cairo) i cristiani copti hanno sofferto non poco. Perciò hanno offerto il loro contribuito per abbattere il governo islamico. Le cronache dei media locali ci raccontano di 32 copti uccisi in seguito allo smantellamento dei famosi insediamenti di Rabia e Nahda avvenuto il 14 agosto 2013. Tra i copti uccisi, nessuno dimentica il caso di Iskandar Tous, tra le vittime del terrore islamico nel villaggio di Dalga, governatorato di Minia, il cui corpo fu fatto a pezzi proibendone la sepoltura per diversi giorni… Una brutalità che si aggiunse alle oltre 62 chiese bruciate e saccheggiate.
Ma quale bilancio possiamo trarre da un punto di vista copto dei due anni trascorsi?
Nonostante una indubbia sintonia tra il presidente al-Sisi e il patriarca Tawadros, alcuni dossier non riescono ancora a trovare una soluzione politica. Su tutti quello relativo alla costruzione delle nuove chiese (ancora regolata da leggi del 1934) e la questione spinosa dello Statuto sociale che governa la materia del matrimonio a livello di Chiese ortodossa, cattolica e protestante. Non possiamo poi passare sotto silenzio diverse fatwa attribuite alla corrente salafita, in piena armonia con quella wahhabita dell’Arabia Saudita. Secondo quest’ultimi, chi non professa la fede islamica è da considerare kâfir (= miscredente), ed è meritevole di morte. Lo stesso scambio di auguri tra un musulmano ed un copto, in occasione delle feste cristiane, è un’atto illecito, haram, perché implica un riconoscimento implicito della fede dell’altro. Dato questo clima, la Chiesa copta è molto riconoscente verso il presidente al-Sisi che ha reso visita alla cattedrale di San Marco per assistere alla messa natalizia del gennaio 2015.
Il pensiero salafita, propagato anche attraverso i metodi di insegnamento dell’Università al Azhar, ispira tanti crimini compiuti, persino in buona fede e in nome di Dio, contro i copti. L’elenco presentato dallo scrittore Soliman Shafiq è eloquente: dal 1983 fino al 2010, non meno di 320 copti sono stati uccisi dai gruppi fondamentalisti islamici, per la sola appartenenza alla fede cristiana. Insomma, nonostante le buone intenzioni del presidente al-Sisi, ancora oggi i copti, pur sognando di vivere da veri cittadini, non godono di tutti i diritti e sono vittime del pensiero salafita, ancora profondamente radicato in molti egiziani semplici.