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Israele e la questione drusa

di Giorgio Bernardelli
22 giugno 2015
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Da qualche settimana in Israele è balzata alla ribalta la questione drusi: con sempre più insistenza si parla dell'eventualità che le alture del Golan diventino la via di fuga di alcune migliaia di drusi che - minacciati dall'avanzata degli islamisti di Jabat al Nusra - potrebbero riversarsi nell'Alta Galilea. La questione drusi è un tema molto complesso, perché rivela tutta la fragilità del castello di carte su cui il Medio Oriente da anni si fonda.


Da qualche settimana in Israele è balzata alla ribalta la questione drusi: con sempre più insistenza si parla dell’eventualità che le famigerate alture del Golan (i territori a nord est del lago di Tiberiade, strappati da Israele alla Siria nel 1967, durante la guerra dei Sei giorni) diventino la via di fuga di alcune migliaia di drusi che – minacciati dall’avanzata degli islamisti di Jabat al Nusra – potrebbero riversarsi nell’Alta Galilea. La novità non sta tanto nella possibilità che anche lo Stato di Israele si trovi in qualche modo coinvolto nella gestione dei profughi del conflitto siriano, come accade ormai da anni (e in maniera molto più massiccia) in Giordania e in Libano. La questione drusi è un tema molto più complesso, perché rivela tutta la fragilità del castello di carte su cui il Medio Oriente da anni si fonda.

Chi sono i drusi? Si tratta di una delle tante minoranze che compongono il mosaico delle etnie in Medio Oriente. La leggenda vuole che siano i discendenti di Jetro, il suocero di Mosé; la storia ne indica le origini in una setta ismailita diffusasi nell’Egitto dei fatimidi nell’XI secolo, attraverso l’incontro dell’Islam con una visione gnostica segnata da una forte componente esoterica. Questa dottrina fu presto perseguitata al Cairo perché ritenuta eretica. Così i drusi si rifugiarono sulle montagne tra la Siria e il Libano dove misero radici crescendo come una comunità del tutto autonoma rispetto all’Islam ortodosso, distaccandosene sempre di più.

Nella loro complessa storia comunità druse si stabilirono anche sulle alture della Galilea; e quando nel 1948 nacque lo Stato di Israele ne accettarono senza riserve la cittadinanza. La loro lealtà nei confronti del Paese ha compreso anche l’arruolamento nell’esercito con la stella di Davide. Così tuttora su circa 1,5 milioni di drusi, 120 mila vivono in Israele, che ne rispetta sostanzialmente l’autonomia nei loro villaggi e li cita ad esempio del rispetto dello Stato ebraico nei confronti delle minoranze. E i loro giovani spesso si trovano in prima linea con l’uniforme israeliana in Cisgiordania o nei posti di frontiera, con incarichi anche molto delicati.

La guerra in Siria ora sta però minando questo rapporto di fiducia reciproca. Perché – come ricorderà molto bene chi qualche anno fa ha visto il film di Eran Riklis La sposa siriana – comunità druse del tutto identiche a quelle israeliane vivono anche al di là delle alture del Golan, in territorio siriano. Spesso si tratta addirittura di famiglie divise dai confini della politica. E finché tra Israele e Damasco andava in scena la «guerra fredda», con un po’ di equilibrismi la situazione era ancora gestibile. Ma ora sta esplodendo una gigantesca contraddizione politica.

Di fronte alla crisi siriana, infatti, Israele sta giocando una doppia partita. Ufficialmente lo Stato ebraico rimane estraneo al conflitto; ma dietro le quinte vuole approfittare del caos per regolare i conti in sospeso con le milizie sciite di Hezbollah (che indirettamente – poi – vuol dire anche con l’Iran, il nemico intorno al quale Benjamin Netanyahu ha costruito tutta la sua politica estera negli ultimi anni). Ci sono stati alcuni raid aerei israeliani più o meni segreti che hanno colpito convogli di Hezbollah. Ma – in nome della comunanza dello stesso nemico – c’è stata anche una forma indiretta di aiuto agli islamisti di Jabat al Nusra: a svelarlo è un articolo pubblicato questa settimana da Newsweek, basato su alcune prove raccolte proprio da un soldato druso dell’esercito israeliano. Alcune immagini mostrano incontri sul confine del Golan con guerriglieri islamisti portati in Israele per essere curati, mentre militari israeliani consegnano delle sacche di rifornimenti a miliziani siriani.

Non è un caso che la denuncia sia partita proprio da un soldato druso, finito per questo davanti a un tribunale militare: i drusi vivono infatti con sempre maggiore disagio questo triangolo; temono che l’avanzata di Jabat al Nusra (o addirittura del sedicente Stato islamico) significhi ancora una volta una persecuzione per gli altri drusi al di là del confine. I quali – temendo di fare la stessa fine degli yazidi iracheni, altra minoranza «eretica» finita nel mirino degli islamisti in Iraq – sostengono Assad e i suoi alleati di Hezbollah. Così i leader della comunità drusa in Israele oggi per la prima volta stanno alzando la voce, dicendo che c’è una responsabilità anche nei confronti di chi vive oltre le alture del Golan.

Nella vicenda drusi c’è dunque in gioco molto più del problema contingente di alcune migliaia di profughi che potrebbero riversarsi in Israele. La questione vera è che la guerra in Siria svela tante contraddizioni in Medio Oriente, lasciando dietro di sé ferite profonde anche lontano da Damasco. Ferite che – come abbiamo scritto ormai tante volte – solo con uno sguardo ampio, capace di abbracciare tutta la regione, si può pensare di cominciare perlomeno a suturare.

Clicca qui per leggere l’analisi di Yediot Ahronot sull’emergenza drusi

Clicca qui per leggere il reportage di Newsweek

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