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Un’oasi sicura per i piccoli immigrati

Carlo Giorgi
20 maggio 2015
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Un’oasi sicura per i piccoli immigrati
Ospiti del centro per i figli di lavoratori stranieri gestito a Gerusalemme dal vicariato per i cattolici di lingua ebraica. (foto C. Giorgi)

Due bimbi di quattro anni saltano in cortile travestiti da bruchi. Una banda di ragazzini gioca a basket. Mentre l’ospite filippina più grandicella è impegnata a cambiare un neonato. Non è un doposcuola qualsiasi quello di Rabbi Kook Street a Gerusalemme, sede del vicariato San Giacomo del patriarcato latino. Qui bambini cristiani da tutto il mondo (Filippine, India, Sri Lanka, Etiopia…) ridono, giocano, litigano e leggono le favole solo «in lingua ebraica». Intendendosi perfettamente tra loro.

Il doposcuola (per i più piccoli scuola materna) di Kook Street nasce nel settembre del 2013, grazie ai volontari della comunità cattolica di lingua ebraica di Gerusalemme. Ogni giorno (sabato escluso) accoglie più di 30 bambini da 0 ai 13 anni, dalle otto del mattino alle sei di sera. I più grandi fanno i compiti e giocano; i più piccoli vengono accuditi fino all’arrivo dei genitori. Al suo secondo anno di vita, la scuola materna non ha più un posto libero. Segreto del successo, aver risposto alla domanda che sta più a cuore a tutti i genitori immigrati: dove metto mio figlio mentre sono al lavoro? La questione dei bambini immigrati irregolari in Israele rappresenta una vera emergenza sociale. «Quando le immigrate con permesso di soggiorno mettono al mondo un figlio – spiega Claudia Graziano, consacrata italiana che lavora al doposcuola –, sanno che il documento difficilmente verrà rinnovato. Così devono scegliere: tornare in patria con il bimbo; o rimanere in Israele in modo illegale. Molte scelgono di rimanere perché, pur senza documenti, preferiscono crescere i figli qui considerando i loro Paesi più poveri e pericolosi. Di fatto, da quel momento, per la legge israeliana diventano fantasmi…». Senza documenti le mamme possono solo lavorare in nero: lo stipendio si abbassa, l’orario di lavoro si allunga, lo sfruttamento diventa normalità. Sistemare i figli durante l’orario di lavoro, un’impresa. In risposta a questa esigenza, nelle città israeliane si stanno diffondendo pseudo-asili a basso prezzo, più simili ad allevamenti di polli in batteria che a scuole materne; decine di culle stipate in stanze buie, nessun gioco e sonno obbligatorio. E quando i bambini immigrati crescono, sono lasciati a loro stessi. In Israele oggi questo problema riguarda potenzialmente migliaia di bambini. Secondo l’Ufficio centrale di statistica israeliano, nel 2013 vivevano nel Paese circa 80 mila i bambini, considerati né ebrei, né arabi, quindi in gran parte figli di immigrati; lo stesso anno i neonati con queste caratteristiche sono stati circa 9.500. Una buona fetta di loro ha genitori stranieri irregolari.

In questo panorama desolante, per decine di famiglie immigrate il doposcuola di Kook Street è diventato un aiuto insostituibile. «In un primo tempo aprivamo due pomeriggi alla settimana, per un paio d’ore – racconta Claudia –; ma non c’era un grande interesse e accoglievamo non più di quattro o cinque bambini. Dopo qualche mese è venuta a trovarci Soyla, una signora filippina che lavora in nero, da dieci anni senza permesso di soggiorno. Soyla deve crescere da sola tre figli maschi che non conoscono il padre… Abbiamo deciso di aiutarla: così, per consentirle di lavorare e guadagnare di più, le abbiamo proposto di andare a prendere i suoi figli alla mattina riportandoglieli la sera. Quando le altre mamme immigrate hanno capito cosa avevamo fatto per Soyla, ci hanno manifestato lo stesso bisogno e i bambini sono aumentati. D’estate, quando le scuole sono chiuse, arriviamo ad averne sessanta tutti insieme. Il doppio del periodo normale».

Il doposcuola del vicariato è gestito interamente da volontari, a partire da Claudia, che lo ha aperto e lo coordina: «Sono arrivata a lavorare qui due anni fa – racconta –, ma sono in Medio Oriente dal 2003. Ho passato molti anni in Giordania, nel centro per i disabili fondato a Madaba dal Sermig di Torino. Oltre alla cura dei disabili, avevamo iniziato un bel lavoro con i ragazzi del quartiere in cui abitavamo. Li incontravamo per la strada, dove giocavano. Abbiamo iniziato a farli venire a casa nostra, poi al centro per i disabili. È stato bello perché disabili e ragazzi normali sono diventati amici creando un unico gruppo. E questo sfidando il pregiudizio molto comune nei Paesi arabi, per cui un disabile è ancora visto come una maledizione del cielo. Quando poi sono arrivata qui, nel 2013 ho chiesto di poter realizzare un progetto simile, aprendo la parrocchia ai bambini e ai ragazzi sue volte alla settimana. Ed è iniziato il doposcuola».

Oltre a Claudia, fanno servizio in Kook Street diversi volontari del Vicariato di lingua ebraica. Tra loro Lucia, una consacrata dell’Ordo Virginum, che coinvolge le bambine in corsi per realizzare braccialetti; due ragazze, una tedesca e una di origine etiope, propongono ai bambini più grandi degli incontri sulla «risoluzione pacifica dei conflitti» (per poter gestire la violenza e il bullismo di cui i bambini immigrati sono spesso vittime). Padre Rafiq, il parroco, fa la catechesi in ebraico. E poi c’è il basket e la danza. Lo stile è quello della responsabilità. I bambini più grandi aiutano i più piccoli nel fare i compiti. Per valorizzare i comportamenti positivi, Claudia usa un sistema a punti: ad ogni buona azione, un punto in più; ad ogni cattiva azione, un punto in meno. Se si raggiungono 500 punti, c’è un piccolo regalo di 50 shekel (poco più di 10 euro, ndr). «È un modo per dar loro qualcosa, visto le condizioni in cui vivono – spiega Claudia – ma anche una leva per affezionarli ai comportamenti più positivi, perché i bambini che vengono qui non sono bambini modello e cadono spesso nel giro della delinquenza minorile».

La vita dei piccoli immigrati in Israele non è facile. Ma la precarietà in cui vivono potrebbe un giorno avere termine. «La cosa interessante è che quando il bambino straniero compie tre anni – spiega Claudia – se è nato qui, o la sua mamma è in Israele da più di sei mesi, può essere iscritto regolarmente a scuola. Pur senza documenti, la scuola non lo denuncia perché in Israele tutti hanno diritto all’educazione fino ai 18 anni». I piccoli stranieri imparano l’ebraico, crescono coi loro coetanei israeliani e diventano cittadini. «Infine, con la maggiore età, spesso sono messi di fronte a un aut aut – conclude Claudia –: facendo il servizio militare ottengono un permesso di soggiorno permanente per tutta famiglia; non arruolandosi, rimangono nell’illegalità».

 


 

Il vicario: «La sfida? Trasmettere la fede»

«Da qualche mese abbiamo comprato una fabbrica a sud di Tel Aviv, trasformandola in una chiesa: ogni domenica vi si celebrano cinque messe, con 250 persone sedute per ciascuna; e 150 bambini che seguono il catechismo. Ma per gli immigrati cattolici in Israele facciamo ancora molto poco…».

Ad affermarlo è padre David Neuhaus, il gesuita che dal 2009 è il vicario per i cattolici di lingua ebraica del patriarcato latino di Gerusalemme. Perfettamente in grado di esprimersi in arabo e lui stesso di origine ebraica, padre David è un segno vivente della possibile convivenza di culture diverse in Terra Santa.

Chi sono i fedeli di cui si occupa il vicariato?
La comunità israeliana di lingua ebraica conta 600, al massimo 800 cattolici arrivati in Israele alla prima ora o convertitisi negli anni al cattolicesimo. A questi però vanno aggiunti 24-25 mila altri fedeli provenienti da diversi Paese, tra essi anche una componente russofona d’origine ebraica, venuta in Israele negli anni Novanta, dall’Europa dell’Est, alla caduta dell’impero sovietico. E 60-70 mila immigrati provenienti dall’Asia, in Israele con un permesso di lavoro e in condizioni molto difficili.

Quali sono i problemi quotidiani dei cattolici di lingua ebraica?
Per gli immigrati c’è il problema della precarietà e dell’integrazione. Per tutti, a partire dai giovani, poi c’è la difficoltà del mantenere la fede. La società israeliana è fortemente secolarizzata. Molti giovani quando terminano il servizio militare hanno perso la fede. E dagli anni Cinquanta del secolo scorso ad oggi, abbiamo una sola famiglia che ha trasmesso la fede per quattro generazioni, di padre in figlio. Per questo abbiamo una forte attenzione pastorale: abbiamo pubblicato da poco sei volumi di catechismo e un libro di preghiere per la famiglia, perché pensiamo che senza una casa cristiana, i bambini non saranno cristiani.

Che sfide deve affrontare oggi il vicariato?
Due in particolare: coltivare il rapporto con gli ebrei; e sviluppare la consapevolezza che siamo in una Chiesa dove i fratelli maggiori sono palestinesi. Rispetto ai palestinesi, dobbiamo dire che Dio nella sua saggezza ha piantato fermamente la stessa fede in due società diverse. In questo fatto c’è un mistero. Dobbiamo dire che non ci sono muri e siamo un unico corpo. (c.g.)

 

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