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Padre Sergio sulle frontiere del dialogo

Giorgio Acquaviva
22 maggio 2015
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Padre Sergio sulle frontiere del dialogo

L'11 maggio 2015 è morto a Gallarate (Varese) il gesuita Sergio Katunarich. Per lunghi anni a Milano ha ricoperto diversi incarichi anche sul versante del dialogo interreligioso. Lo ricorda il giornalista Giorgio Acquaviva.


L’ultima sua gioiosa fatica in pubblico risale al settembre 2011, quando il «suo» Gexe (Gruppo ecumenico cristiano-ebraico, nato negli anni Ottanta) organizzò, in collaborazione con il Fondo Alessandro Nangeroni, l’incontro interreligioso dal titolo Tutti figli di Abramo: dunque, fratelli. L’iniziativa era nata da un’intuizione di padre Sergio Katunarich emersa durante una nostra chiacchierata – di quelle che facevamo a ruota libera nel suo studio all’istituto dei gesuiti Leone XIII, a Milano – che partiva da elementi tutto sommato semplici (la lettura della Bibbia) e ne traeva conclusioni, o almeno ipotesi, arditissime, che facevano saltare schieramenti e muri, ridicolizzavano le scorie della storia, e aprivano a un futuro di pace e fratellanza. Le parole con cui i relatori rav Giuseppe Laras, l’imam Yahya Pallavicini e il gesuita Samir Khalil Samir si «giocarono» su quel tema, rimangono un importante punto di ri-partenza.

Tutto il lavoro di padre Sergio in questo campo ha avuto negli anni l’andamento dello sguardo in avanti, fino alla frontiera della profezia. La fede nel Dio di Abramo e di Gesù di Nazaret era per lui incrollabile. E il dialogo fra ebraismo e cristianesimo – al quale negli ultimi tempi aggiunse quello con l’Islam, riconoscendo a questa religione una funzione provvidenziale – fu sempre il «metodo» che insegnò ai tanti suoi amici che ne seguivano l’evoluzione e gli sviluppi. Ora, vedendo e ascoltando gesti e parole di Papa Francesco (gesuita come lui e come Carlo Maria Martini!) ci si rende conto di quante intuizioni abbiamo avuto il privilegio di condividere in anticipo sui tempi eccezionali che stiamo vivendo.

Come giornalista lo intervistai due volte, in occasione della pubblicazioni di suoi lavori (entrambi editi da Spirali) che ritengo particolarmente acuti e innovativi. Il primo è del 1995, e si intitola Cristianesimo e Ebraismo. Nuove convergenze. In esso mi colpì allora soprattutto la proposta, con tanto di declinazione pratica, del «sabato totale», cioè del week end da dedicare al Signore, dal venerdì sera alla domenica. Un tentativo, insomma, «non solo di opporsi alla secolarizzazione dei tempi religiosi, ma anche alla sacralizzazione dei tempi laicisti». Il secondo è del 1998 e porta come titolo Il ritorno di Pietro a Gerusalemme, il cui significato profondo è già immediatamente chiaro: Pietro è in esilio a Roma da quando lasciò la Galilea e poi Gerusalemme e si trasferì nella capitale dell’impero. Forse è ora che pensi a un «ritorno a casa». Chi potrebbe opporsi?

Padre Sergio era nato a Rijeka (nell’attuale Croazia), quando ancora si chiamava Fiume ed era italiana, il 14 giugno 1923. Entrato nella Compagnia di Gesù nel 1946, divenne sacerdote nel 1955, ordinato dal cardinale Montini. Ricoprì diversi incarichi al Leone XIII di Milano dal 1982 al 2012. Instancabile animatore di gruppi di giovani, docente di Storia Ebraica in Università Cattolica, confessore e scrittore e poeta, con Fiume nel cuore e Gerusalemme negli occhi. Ci ritrovammo insieme a studiare ebraico, ma lui era molto più bravo, tanto che riusciva a celebrare la messa in quella lingua aspra e assoluta.

L’ultima volta che sono andato a trovarlo, all’Aloisianum di Gallarate dove si è spento la sera dell’11 maggio scorso, gli avevo portato un cartoncino su cui avevo scritto in ebraico Igdil Adonai la-asot imanu («Grandi cose ha fatto per noi il Signore») e si era commosso, stringendo fra le mani il rosario.

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