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Gli zabbalin contro la casta: ministro silurato per dichiarazioni classiste

di Elisa Ferrero
18 maggio 2015
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In Egitto il classismo è ancora una realtà diffusa, ma quel che è successo la settimana appena trascorsa testimonia che la rivoluzione del 2011 non ha lasciato tutto come prima. Dopo alcune dichiarazioni televisive il ministro della Giustizia è stato aspramente contestato e costretto a dimettersi. Un segnale forse piccolo, ma non privo di significato.


In Egitto il classismo è ancora una realtà diffusa, ma quel che è successo la settimana appena trascorsa testimonia che la rivoluzione del 2011 ha scombussolato anche le gerarchie consolidate e le relazioni pubbliche e familiari che formano la trama del tessuto sociale. Tutto ha avuto inizio la sera di domenica 10 maggio, con l’apparizione del ministro della Giustizia Mahfouz Saber in un programma del canale televisivo Ten. Intervistato dal presentatore, Saber ha candidamente dichiarato che il figlio di uno zabbal (raccoglitore di immondizia) non può certo diventare giudice, perché quest’ultimo deve provenire da un ambiente sociale materialmente e spiritualmente rispettabile, consono a quella funzione di alto prestigio. Poi, Saber ha rincarato la dose, affermando che se mai il figlio di uno zabbal diventasse giudice, finirebbe per attraversare crisi di ogni genere, la depressione per esempio, e non potrebbe continuare il suo lavoro. Infine, ha ribadito che è lodevole che uno zabbal faccia studiare il figlio, ma che ci sono altri lavori più consoni per lui, non certo quello di giudice.

Il presentatore sbigottito non ha commentato. L’opinione pubblica, invece, si è scatenata in poche ore. In realtà, l’esclusione dei figli delle classi sociali più basse da mansioni prestigiose è pratica e regola. Non solo per ragioni economiche, perché gli studi necessari ad accedere a certe professioni costano troppo (come succede in tante altre nazioni), ma anche perché questa esclusione, in taluni casi, è persino regolamentata. Nel 2014, per esempio, il Consiglio Supremo della Magistratura ha approvato un regolamento che, per ammettere qualcuno alla funzione di Pubblico Ministero, richiede la laurea non del candidato, ma… dei suoi genitori.

Le affermazioni di Saber, dunque, non riflettono altro che la realtà, una realtà nella quale i giudici si passano la professione di padre in figlio come una casta. Ma che un ministro della Giustizia abbia potuto giustificare questa realtà in diretta televisiva, impunemente e spudoratamente, come se fosse un dato di fatto incontrovertibile, o addirittura una legge di natura, è stato troppo.

Un blogger ha lanciato una campagna sui social network chiedendo il «licenziamento» del ministro e migliaia l’hanno seguito. Una campagna virtuale come tante, sembrava. Destinata a sollevare un’ondata d’indignazione senza molte speranze per poi tacersi gradualmente. Ma così non è stato.

Fra le voci che hanno contestato il ministro c’è stata anche quella di Shehata Maqqades, capo del sindacato indipendente degli zabbalin. Sì, perché nel 2012, in seguito alla rivoluzione del 2011, gli zabbalin si sono dotati di un sindacato per la prima volta nella storia. Non solo, ora il capo di tale sindacato si permette anche di rimbrottare duramente il ministro della Giustizia. Maqqades ha iniziato facendo notare al ministro che uno zabbal raccoglie anche i rifiuti e le schifezze del signor ministro, e che nonostante ciò niente impedisce al figlio di uno zabbal di avere migliori risultati del figlio di un giudice negli studi di legge. Che si fa in quel caso? Poi gli ha ricordato l’articolo 53 della nuova Costituzione, che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e garantisce uguali opportunità sociali. Quindi, gli ha fatto notare che solo quattro anni prima gli egiziani si erano riversati in piazza al grido di “pane, libertà e giustizia sociale” (sottolineando bene il terzo punto) e che potrebbero rifarlo se le cose non cambiassero sostanzialmente in questo Paese. Infine, ha invocato l’intervento “dall’alto” per far cessare al più presto questo tipo di discorsi nel governo.

E dopo la storica tirata d’orecchi dello zabbal al ministro, con l’ira dell’opinione pubblica che continuava a montare contro «l’élite», l’intervento dall’alto è arrivato davvero, a quanto pare. La sera dell’11 maggio, solo ventiquattr’ore dopo la famigerata intervista, il ministro ha dato le dimissioni.

Ovviamente, la realtà non cambierà per questo dall’oggi al domani, ma la sconfitta del ministro e dei giudici classisti è stata una piccola grande vittoria simbolica. Segno del cambiamento sociale seguito alla rivoluzione del 2011, piccolo germoglio nato dai semi piantati allora.

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