«Israele è un paese che si mostra orgoglioso del suo rispetto per la legge. In realtà, si fonda sull’abuso della legge e sul suo utilizzo per interessi propri». Non usa mezzi termini Emily Schaeffer Omer Man, avvocatessa israeliana che lavora da dieci anni nella difesa dei palestinesi dei Territori, sfidando le politiche di occupazione e la confisca delle terre.
«Israele è un paese che si mostra orgoglioso del suo rispetto per la legge. In realtà, si fonda sull’abuso della legge e sul suo utilizzo per interessi propri». Emily Schaeffer Omer Man, avvocatessa israeliana, lavora da dieci anni nella difesa dei palestinesi sotto occupazione nei Territori, fornendo assistenza ai singoli individui e consigli legali a note Ong israeliane, da Yesh Din a Breaking the Silence. Sfida le politiche di occupazione e la confisca delle terre utilizzando la stessa legge israeliana e affontando una burocrazia complessa in cui individua gli elementi contradditori che possano salvare un pezzo di terra, spostare il muro di separazione, evitare la demolizione di una casa.
«Nei Territori Occupati Palestinesi, Israele applica la legge militare, giustificando il diverso sistema legale che impone ai residenti palestinesi con l’inesistenza di un potere del tutto sovrano, almeno nella teoria – ci spiega Emily –. Il diritto internazionale, infatti, ha al suo interno un sistema di leggi che gestisce i casi di occupazione militare, a partire dalla IV Convenzione di Ginevra».
Centrale nel diritto internazionale sull’occupazione è l’articolo 64 della Convenzione che impone alla potenza occupante di applicare nel territorio occupato le leggi preesistenti. «Israele lo fa solo in parte: applica il proprio sistema legale militare e poi usa quelli civili precedenti – l’ottomano, l’inglese e il giordano – solo nei casi in cui si sposano alla perfezione con i propri interessi».
Ma è nella pianificazione urbana – fondamentale perché usata da Israele sia per impedire lo sviluppo delle comunità palestinesi in Cisgiordania che per espandere i propri insediamenti – che le autorità israeliane hanno dato vita a un complesso sistema burocratico che ai loro occhi giustifica le politiche di confisca delle terre palestinesi: «L’articolo 53 della Convenzione di Ginevra – continua il legale israeliano – proibisce al potere occupante di distruggere le proprietà esistenti, se non nel caso di impellenti necessità militari. Israele però porta avanti constantemente demolizioni di case e strutture basandosi sull’assenza di permessi di costruzione rilasciati dallo stesso Stato israeliano. Qui si vede bene come non esistano necessità militari: l’assenza di un permesso è un fatto amministrativo, civile, legato al mancato rispetto dei regolamenti di pianificazione urbana che non trova giustificazione nel diritto internazionale».
«Lo stesso regolamento è utilizzato, dall’altra parte, per trasferire la propria popolazione nel territorio occupato, anche questo vietato dal diritto internazionale. Israele si difende dicendo che non obbliga nessun cittadino israeliano a spostarsi nelle colonie. Non obbliga, ma facilita: confisca le terre, costruisce le colonie, le collega alle infrastrutture, invia i servizi pubblici. E alla fine, sempre giustificando il tutto con il regolamento di pianificazione urbana, garantisce aiuti fiscali e mutui agevolati ai coloni», continua la Schaeffer Omer Man.
Ma chi gestisce, nella pratica, la Cisgiordania? Se in Area A (il 18 per cento della Cisgiordania, sotto il controllo palestinese, secondo gli accordi di Oslo) è l’Autorità Nazionale Palestinese che definisce il piano regolatore, in Area C (il 60 per cento della Cisgiordania, sotto il controllo israeliano) sono le autorità di Israele a decidere: «L’ente responsabile è l’Amministrazione Civile. Nella pratica quello che l’ente fa è impedire il naturale sviluppo urbanistico delle comunità palestinesi in Area C, negando i permessi di costruzione e l’approvazione dei piani urbanistici che molti villaggi hanno presentato. Come si giustifica Israele? Affermando che per il diritto internazionale va applicata la legge locale. Allo stesso tempo, però, demolisce quanto costruito perché le comunità non hanno i permessi israeliani per espandersi».
In alcuni casi, però, proprio utilizzando i cavilli dei regolamenti israeliani, avvocati come Emily Schaeffer e organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno vinto cause di fronte alla Corte Suprema israeliana. Come a Bi’lin, villaggio palestinese noto per la lunga resistenza popolare nonviolenta all’occupazione: «A Bi’lin abbiamo vinto in tribunale: nel 2007 la Corte ha stabilito che le terre dove era stato costruito il muro di separazione e quelle al di là del muro erano proprietà privata palestinese. La sentenza è stata applicata nel 2011: Israele è stato costretto a distruggere il muro e a ricostruirlo lontano dal villaggio, riconsegnando a Bi’lin le terre confiscate a favore della vicina colonia».
Nella maggior parte dei casi, però, sono le comunità palestinesi a perdere. Come Susiya, piccolo villaggio nelle colline a sud di Hebron, 250 abitanti che vivono di pastorizia e agricoltura. Nel 1986 sono stati cacciati dalle proprie terre per la prima volta. Hanno ricostruito tende e strutture in un altro terreno di proprietà del villaggio: nel 2001 sono stati di nuovo espulsi, ma stavolta sono rimasti e hanno ricostruito. Da allora è cominciata una dura battaglia legale, intervellata dalle demolizioni delle tende e delle strutture da parte dei bulldozer israeliani.
«Ci siamo rivolti alla Corte Suprema contro la petizione della vicina colonia israeliana, anch’essa chiamata Susiya, e dell’associazione di coloni Regavim – ci spiega uno dei leader del comitato popolare del villaggio, Nasser Nawajah –. I coloni hanno chiesto la distruzione del nostro villaggio. La Corte ha preso tempo, domandando all’esercito di fornire elementi che giustificassero la demolizione. Alla fine è giunta la sentenza: lo scorso 4 maggio la Corte Suprema ha deciso di non decidere, affermando che spetta ai militari decidere cosa fare di Susiya. Il giorno dopo l’Amministrazione Civile israeliana si è presentata a Susiya e ha consegnato ordini di demolizione. Ogni giorno è un giorno buono: potrebbero venire in qualsiasi momento e distruggere la nostra comunità».
«Eppure – prosegue Nawajah –, con l’aiuto dell’associazione israeliana Rabbini per i diritti umani, avevamo presentato un piano regolatore a Israele, chiedendo di riconoscerlo e così di legalizzare ai suoi occhi il nostro villaggio. Il piano è stato respinto nel 2013. È un circolo vizioso: ci negano la legalizzazione, ci negano i permessi e poi giustificano la demolizione del villaggio dicendo che non abbiamo alcun allaccio ai servizi pubblici, che non abbiamo scuole o cliniche. Se le costruiamo da soli, come abbiamo fatto, i bulldozer israeliani le distruggono. Dietro c’è una ragione ovviamente politica: cancellare la presenza palestinese nelle colline a sud di Hebron».