I morti sono 550 e i feriti 1.746 solo dal 19 marzo - ovvero dallo scoppio dell’ultima fase del conflitto - ad oggi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in Yemen siamo di fronte a una crisi umanitaria di gravissime proporzioni che minaccia di diventare catastrofe. Nel Paese è in corso una guerra che si svolge su più fronti.
I morti sono 550 e i feriti 1.746 solo dal 19 marzo – ovvero dallo scoppio dell’ultima fase del conflitto – ad oggi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in Yemen siamo di fronte a una crisi umanitaria di gravissime proporzioni che minaccia di diventare catastrofe. E non c’è esagerazione nell’affermarlo: questo è un Paese che da molti anni soffre di un altissimo tasso di mortalità per malnutrizione, carenza di cibo, condizioni di povertà. Già la Fao (l’Agenzia Onu per l’alimentazione e l’agricoltura) lo segnalava nel 2011 come uno degli 11 paesi al mondo dove si muore di più per fame, un dato certificato per l’80 per cento dei casi di mortalità infantile sotto i cinque anni di età. Non solo. L’Household Budget Survey (Hsb, Indagine sui consumi delle famiglie) ha rilevato come dal 2005 il 55 per cento degli yemeniti adulti soffra di malnutrizione acuta. Una situazione che il conflitto sta amplificando, nella quasi impotenza delle organizzazioni internazionali che chiedono da sabato scorso almeno un corridoio umanitario e che, ad oggi, nonostante abbiano ottenuto il permesso dalla coalizione dei paesi del Golfo, che ha in mano la direzione delle operazioni militari, faticano a noleggiare e fare atterrare un aereo cargo che porterebbe nel Paese 48 tonnellate di aiuti medici.
Ma in Yemen ci sarebbe bisogno di molto di più. Per Unicef (l’Agenzia Onu per l’infanzia) sarebbero almeno 100 mila le persone che hanno abbandonato le loro case dall’inizio del conflitto, soprattutto donne e bambini. La maggior parte provengono da aree già funestate da logoranti conflitti locali tra truppe regolari, tribù locali e ribelli sciiti, seguaci di Abdulmalik al Houthi, leader del partito Ansar Allah (I partigiani di Dio – ndr). Nelle città di al-Dhale, Abyan, Amran, Saada, Hajja la situazione dei senza casa è peggiorata esponenzialmente, soprattutto da quando il grande campo di al-Mazraq, nato cinque anni fa nel Nord del Paese, per accogliere migranti somali e yemeniti sfollati dalla guerra civile nella città di Sada, roccaforte della famiglia al-Houti, è stato bombardato dagli F16 sauditi. La direzione militare della coalizione ha ammesso che si sarebbe trattato di un errore fatale nel quale hanno perso la vita 45 persone e 65 sono rimaste gravemente ferite.
I bambini sono coloro che stanno pagando questo conflitto a caro prezzo, più di tutte altre fasce della popolazione. Sempre secondo Unicef, 74 minori sarebbero morti durante gli scontri. Altri 44 avrebbero riportato menomazioni gravissime. Un fenomeno che si spiega con la presenza di bambini-soldato tra le unità combattenti. Julien Harneis – rappresentante dell’agenzia internazionale nel Paese – sostiene che il numero dei bambini-soldato deceduti sia presumibilmente più alto e richiede un’azione immediata tra le parti in conflitto, per attivare una «protezione speciale sotto l’egida delle leggi umanitarie internazionali».
L’area di maggiore e urgente intervento resta quella di Aden, dove interi quartieri sono isolati dall’infuriare della battaglia tra fedeli al governo Hadi e ribelli sciiti e dove, oltre a bombardamenti e battaglie di terra con armi pesanti, si aggiungono gli scontri tra artiglieria houthi e unità navali egiziane per determinare il possesso dello strategico porto della città. Qui, la popolazione rende note azioni settarie di vendetta da parte dei ribelli sciiti che avanzano, in un quadro di impossibilità di accesso degli operatori umanitari alle zone di conflitto e in totale mancanza di strumenti medici e posti letto ospedalieri per la prima assistenza.
In questo collasso generalizzato, mentre le cancellerie di Cina, India, Russia e financo Somalia hanno approntato un piano di fuga via mare per i propri cittadini bloccati nel Paese, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha fatto sapere che il primo gruppo di yemeniti fuggiti dal conflitto è arrivato in Somalia. Sono 32, provengono dalla città di Taez e sono arrivati un paio di giorni fa nel porto di Berbera dopo 12 ore di viaggio via mare. Una contraddizione in termini o uno scherzo del destino per gli abitanti dello Yemen, il Paese della Penisola Arabica che dal 1990, anno della guerra civile nel Corno d’Africa, ha riparato sul suo suolo più di 236 mila somali.
Aggiornamento del 9 aprile: La scorsa notte sono state scaricate nel porto di Aden circa 2 tonnellate di aiuti inviati dall’ong Medici senza frontiere. Sul posto è giunta anche una squadra chirurgica della Croce Rossa guidata dall’italiano Marco Baldan.
Tutti contro tutti
(g.s.) – Lo scontro principale in Yemen è quello che contrappone le forze leali all’estromesso presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi a quelle raccolte attorno agli insorti Houthi, filo sciiti, che già controllano parte del Paese e che, a cavallo tra il 2014 e il 2015, si sono arroccati nella capitale Sanaa, inducendo il capo dello Stato alla fuga, prima ad Aden – la seconda città del paese – e poi in Arabia Saudita (il 25 marzo scorso).
Gli apparati di sicurezza sono spaccati: alcune frange non rispondono più al governo legittimo, ma stanno dalla parte degli Houthi e del loro improbabile alleato, l’ex presidente Ali Abdullah Saleh (costretto a lasciare il potere nel 2012). Su tutt’altro fronte le forze di al Qaeda, che si considerano alternative agli uni e agli altri. In gioco c’è anche il sedicente Stato Islamico, che punta ad avere la meglio su tutti.
In marzo nel conflitto è intervenuta militarmente, a fianco del regime, una coalizione (sunnita) di Stati del Golfo, guidata dall’Arabia Saudita e mobilitata in prospettiva anti-sciita e anti iraniana. Vi aderiscono anche la Giordania e l’Egitto, al quale preme anche difendere le rotte navali da e per il Mar Rosso e il canale di Suez.