Una coalizione senza precedenti si presenta alle elezioni israeliane del 17 marzo. I partiti arabi e anti-sionisti si sono accordati per creare un fronte unico di opposizione alla possibile rielezione del premier uscente Benjamin Netanyahu. Tra le novità di queste parlamentari anticipate c'è il blocco arabo unitario, che punta al voto degli elettori palestinesi, ma non solo.
Una coalizione senza precedenti si presenta alle elezioni israeliane del 17 marzo. I partiti arabi e anti-sionisti si sono accordati per creare un fronte unico di opposizione alla possibile rielezione del premier uscente Benjamin Netanyahu. Un po’ quello che sta facendo il centrosinistra sionista israeliano, con l’ex ministro della Giustizia Tzipi Livni (cacciata dal governo dal primo ministro perché accusata di scarsa fedeltà) che si presenterà agli elettori a fianco del partito laburista. Ma che alla fine potrebbe allearsi proprio con il Likud.
A rappresentare la vera novità di queste parlamentari anticipate, quindi, è il blocco palestinese. La partecipazione elettorale è sempre stata una questione delicata per i palestinesi cittadini israeliani: con una serie di norme e prassi che impediscono loro di esercitare gli stessi diritti di chi è ebreo, si sono sempre reputati cittadini di serie B e per anni hanno preferito disertare le urne, convinti dell’inutilità del proprio voto, seppur rappresentino il 20 per cento della popolazione totale. Mai nella storia di Israele un partito arabo è entrato in una coalizione di governo (tranne durante l’era Rabin, tra il 1992 e il 1995, con un appoggio esterno). Per cui, si sono sempre chiesti i palestinesi, a che serve votare? E perché si dovrebbe votare per uno Stato che riteniamo occupare la nostra terra?
Stavolta le percentuali di partecipazione potrebbero però crescere: i sondaggi parlano di un tasso intorno al 65 per cento, il più alto da 16 anni. A cambiarle è il nuovo leader del blocco politico palestinese, Aymah Odeh, a capo della fazione più grande della lista, il partito comunista Hadash, di cui fanno parte sia palestinesi che ebrei. Odeh ha saputo mettere insieme i partiti arabi, spaventando non poco l’establishment politico ebraico che aveva tentato di frenare la partecipazione della minoranza: il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman ha fatto approvare lo scorso anno una legge che ha innalzato la soglia di sbarramento dal 2 al 3,25 per cento. Per superare il nuovo ostacolo, i palestinesi hanno optato per l’unità.
Gli ultimi sondaggi danno alla Lista Comune un tesoretto di 13 (forse 15) seggi su 120, il terzo partito del paese con il 12 per cento delle preferenze. Un risultato senza precedenti di cui Benjamin Netanyahu dovrà tener conto. Il premier (che è risalito nei sondaggi grazie allo spauracchio Isis e alla fantomatica minaccia iraniana) ha intenzione di abbandonare i compagni di coalizione dell’ultimo governo, i nazionalisti di HaBayit HaYehudi (il Focolare ebraico di Naftali Bennet) e i centristi di Yesh Atid (C’è un futuro, di Yair Lapid), che tanti grattacapi gli hanno dato negli ultimi tre anni, per ritornare all’ovile: i partiti ultraortodossi, piccoli ma fedeli.
In un simile contesto, però, l’opposizione godrebbe di una presenza consistente alla Knesset. E la Lista Comune araba potrebbe godere dei voti decisivi a far pendere la bilancia da una parte e dall’altra. Ne fanno parte in tanti: cristiani, musulmani, drusi, ebrei, comunisti, nazionalisti, liberali e islamisti. «La volontà della gente» è lo slogan scelto dal melting pot palestinese; il messaggio è chiaro: la volontà della gente è l’unità tra le fazioni palestinesi, non più il boicottaggio delle elezioni. Si vedrà se davvero i palestinesi cittadini israeliani opteranno per un cambio di strategia.
«Noi rappresentiamo gli invisibili in questo Paese e diamo loro una voce – ha detto pochi giorni fa Odeh, che di mestiere fa l’avvocato –. Portiamo anche un messaggio di speranza a tutti, non solo agli arabi». Su questo punta la nuova lista: accaparrarsi anche i voti degli ebrei anti-sionisti o di quelli che chiedono maggiore uguaglianza e democrazia. Di fronte alla Lista Comune si apre un sentiero di sfide: la popolazione palestinese dentro lo Stato di Israele ha livelli più bassi di educazione e alfabetizzazione, scarse infrastrutture industriali e culturali, minori possibilità di accesso al lavoro qualificato, più alti tassi di criminalità, derivanti spesso dal maggior livello di povertà (nel 2014, il 55 per cento dei palestinesi in Israele viveva sotto la soglia di povertà e solo il 50 per cento otteneva un diploma superiore).
Per questo si andrà a votare: secondo un recente sondaggio dell’Università di Tel Aviv, per il 44 per cento dei palestinesi che si recheranno alle urne, la principale preoccupazione non è il processo di pace ma le questioni civili, ovvero l’economia, la disoccupazione, l’educazione, i diritti delle donne.
Ma la sfida più difficile è vincere la facile propaganda su cui sta facendo leva la destra israeliana per risalire nei consensi: I sondaggisti danno l’Unione sionista, di centro sinistra, ancora in vantaggio di una manciata di seggi sul Likud di Netanyahu (24-25 seggi contro 21-22). Così il premier insiste, come sempre fatto in passato, sulla minaccia islamista: video elettorali parlano di uno Stato Islamico alle porte di Israele, innalzando il livello della paura e il senso di minaccia incombente. Una strategia spesso utilizzata in vista delle elezioni, soprattutto per evitare di discutere dei reali problemi del Paese: in questi giorni è tornato a protestare il popolo delle tende, migliaia di israeliani sono scesi in piazza a Tel Aviv per chiedere che si affrontino le questioni centrali, la casa, il costo della vita, la giustizia sociale.