Mentre gli elettori israeliani sono appena andati alle urne, i loro vicini palestinesi da dieci anni non vengono chiamati al voto per le politiche e le presidenziali. La causa risiede nella discordia tra i movimenti antagonisti di Fatah e Hamas. La «riconciliazione» dell’aprile 2014 tra le due parti non ha mutato i fatti sul terreno.
(Ramallah) – «Le elezioni in questo paese sono come la guerra o la morte: possono sopraggiungere non si sa quando!». Per parlare della politica palestinese, Farid Taamallah preferisce fare ricorso a un pizzico di umorismo. La Commissione centrale elettorale, di cui fa parte, è incaricata di preparare il voto in Palestina… ma da lunghi anni non adempie al suo nobile compito. Il nostro interlocutore si fa più serio: «Non è escluso che le prossime elezioni possano svolgersi nel 2015, ma al momento non c’è alcuna previsione. Secondo la Legge fondamentale palestinese, il presidente deve indire nuove elezioni, con un apposito decreto, tre mesi prima del loro svolgimento».
Di qui a non molto saranno dieci anni che i palestinesi non si recano alle urne per le politiche: l’ultima volta fu nel 2006. Le legislative allora furono vinte da Hamas che ebbe la meglio sul rivale nazionalista, il movimento Fatah. Quest’ultimo venne poi estromesso militarmente dalla Striscia di Gaza nel 2007, mantenendo il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) che ha il proprio quartier generale a Ramallah (in Cisgiordania).
La mancanza di unità tra i dirigenti di Gaza e della Cisgiordania è attualmente il principale ostacolo allo svolgimento delle elezioni. «In base alla legge, il voto per le politiche deve svolgersi simultaneamente in tutta la Palestina – annota Farid Taamallah – al contrario di quanto previsto per le municipali. Le amministrative più recenti risalgono al 2012 in Cisgiordania e al 2004 nella Striscia di Gaza». Senza accordo tra Fatah e Hamas è dunque impossibile organizzare elezioni su scala nazionale.
Le due fazioni antagoniste qualche mese fa sembravano essersi riconciliate. Il 23 aprile 2014 è stato firmato un accordo tra Hamas e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (l’Olp, controllata da Fatah – ndr) sfociato, il 2 giugno seguente, nella formazione di un esecutivo di unità nazionale. Questo governo provvisorio, composto da 17 ministri (di cui 5 da Gaza), aveva come scopo quello di preparare le prossime elezioni sia politiche che presidenziali. Negli intenti avrebbero dovuto svolgersi a fine 2014 e suggellare la riconciliazione (politica) della Palestina.
Benché ostentato, questo fronte unito non ha saputo porre fine alle lotte intestine, e la riconciliazione sembra tanto lontana quanto illusoria. Hamas e Fatah si rimpallano le responsabilità del nuovo slittamento delle elezioni: «Hamas non è pronto ad accettarne le conseguenze, e cioè la possibilità di perdere il controllo di Gaza – sostiene, da Ramallah, il vice ministro dell’Informazione, Mahmoud Khalefa -. Per quanto riguarda noi dell’Autorità Palestinese, ci auguriamo che si vada alle urne il prima possibile».
Il giornalista palestinese Mohammed Daraghma, corrispondente da Ramallah dell’agenzia Associated Press (Ap), mette in dubbio la sincerità dei dirigenti palestinesi. «Credo – dice – che non abbiano alcuna intenzione di preparare nuove elezioni. Bisogna ammettere che la situazione attuale è piuttosto comoda per loro: da otto anni non c’è un parlamento funzionante e nessuna vera opposizione… L’assenza del voto è un’ottima scusa per non cambiare nulla. Dire elezioni è dire cambiamento».
Eletto nel gennaio 2005 per restare in carica quattro anni, il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) è già al sesto anno oltre la fine del mandato. Ha provato a indire le elezioni per decreto nel 2010, ma, causa l’opposizione di Hamas, che lo accusò di aver «usurpato» il potere, le consultazioni non si sono mai svolte.
Ora come ora la mancanza di iniziativa del presidente palestinese può forse essere interpretata come una forma di prudenza attendista. «Abbas rischierebbe di perdere la faccia – osserva Sam Bahour, analista americano-palestinese –. Se alle urne Hamas (che è nella lista delle organizzazioni considerate terroriste a livello internazionale – ndr) dovesse affermarsi in Cisgiordania e assumere la guida dell’Autorità Palestinese si oltrepasserebbe la linea rossa segnata dagli Stati Uniti. Insieme agli Usa, tutta la comunità internazionale prenderebbe le distanze dai palestinesi, che si troverebbero allora totalmente isolati».
Le elezioni, secondo Bahour, non sono che un elemento di un quadro molto più ampio: la necessaria ristrutturazione dell’intero sistema politico palestinese. «Non bisogna dimenticare – dice – che l’Autorità Palestinese è una componente dell’Olp», l’organizzazione fondata nel 1964 e internazionalmente riconosciuta come «l’unico rappresentante legittimo del popolo palestinese», e cioè di circa 9 milioni di persone, contando anche coloro che sono sparsi nel mondo.
Agli occhi dei palestinesi l’avvenire politico del loro paese resta incerto. La situazione finanziaria, già catastrofica, è stata ulteriormente aggravata in gennaio dalla decisione di Israele di bloccare i trasferimenti delle tasse doganali raccolte per conto dell’Anp, come rappresaglia per la decisione palestinese di aderire alla Corte penale internazionale (in chiave anti-israeliana). Se i palestinesi temono di vedere affondare l’Anp, taluni dirigenti dell’Olp si spingono a minacciare di scioglierla, per costringere Israele, in qualità di potenza occupante, a prendersi direttamente in carico i quasi 4 milioni e mezzo di uomini e donne palestinesi che popolano la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.