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La resistenza colorata dei giovani rivoluzionari dietro le sbarre

di Elisa Ferrero
11 febbraio 2015
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Le carceri egiziane ospitano circa ventimila prigionieri politici. Molti di loro sono stati arrestati con l’accusa di aver partecipato a manifestazioni non autorizzate, in base alla legge anti-proteste del 2013. Nemmeno la prigione, però, riesce a zittire la protesta, ora trasformatasi in resistenza, di una generazione di giovani laici in lotta per il proprio futuro...


Secondo le associazioni per i diritti umani, le carceri egiziane ospitano circa ventimila prigionieri politici. Molti di loro sono stati arrestati con l’accusa di aver partecipato a manifestazioni non autorizzate, in base alla legge anti-proteste del 2013.

L’ultimo, eclatante caso che, nei giorni scorsi, ha risvegliato l’attenzione su questa situazione drammatica è stata la condanna all’ergastolo del giovane attivista Ahmed Douma, uno dei volti più noti dell’opposizione senza compromessi al regime egiziano, fin dai tempi del presidente Hosni Mubarak. Al ragazzo, non nuovo alle persecuzioni giudiziarie, sono state rivolte le accuse di assembramento illegale, detenzione di armi, assalto alle forze di sicurezza e vandalismo nei confronti di edifici governativi. Assieme a Douma, sono stati condannati al carcere a vita anche altri 229 imputati, con l’aggiunta di una multa collettiva di 17 milioni di sterline egiziane (quasi 2 milioni di euro). Fra i condannati anche 39 ragazzi minorenni, che hanno ricevuto dieci anni di carcere a testa. Alla lettura di questa sproporzionata sentenza, Douma è scoppiato a ridere in faccia al giudice, applaudendo vigorosamente. Il giudice, in tutta risposta, ha aggiunto altri tre anni di carcere alla sua condanna.

Il magistrato in questione, Nagy Shehata, è ormai un volto noto in Egitto. È lo stesso giudice delle condanne a morte di massa inflitte ai Fratelli Musulmani e del processo ai giornalisti di al-Jazeera. Un solo giudice zelante che, tuttavia, né il sistema giudiziario né il governo politico sembrano intenzionati a fermare, lasciando invece che un’ondata di repressione, per ora inarrestabile, spazzi via dalla scena pubblica ogni oppositore rumoroso.

Ciononostante, nemmeno la prigione riesce a zittire la protesta, ora trasformatasi in resistenza, di una generazione di giovani laici in lotta per il proprio futuro. La creatività e la tenacia di questi giovani, già viste all’opera in piazza Tahrir, sono il loro più grande talismano contro la tentazione della violenza, alla quale altri coetanei, soprattutto islamisti, hanno ceduto. La prima e più consolidata forma non violenta di protesta dal carcere è lo sciopero della fame. Molti detenuti, fra i quali anche Ahmed Douma e il noto attivista Alaa Abdel Fattah, sono in sciopero della fame da lunghi mesi, con grave rischio per la propria vita. Altri detenuti, invece, scelgono di comunicare il proprio messaggio di resistenza al mondo esterno «creando» quasi dal nulla.

Asmaa Hamdy, per esempio, è una giovane studentessa dell’Università di al-Azhar. È stata arrestata durante una delle tante manifestazioni studentesche che hanno messo sottosopra i campus universitari per mesi. In prigione, ha iniziato a lavorare a maglia. Ha cominciato con borse e magliette, passando poi a portapenne e braccialetti. Nonostante le restrizioni della prigione, la sua famiglia è riuscita a portarle il materiale occorrente per il lavoro a maglia. Ma questo lavoro, per Asmaa, non è stato solo un modo di sopravvivere al carcere, è diventato anche un messaggio di protesta. Le è bastato apporre ai suoi prodotti, con tipica ironia egiziana, un’etichetta speciale: Made in Prison. Questo marchio è diventato famoso in poco tempo e, con grande disappunto dei carcerieri, ne è fiorito un discreto commercio. La famiglia della ragazza, che vende i manufatti, ha persino creato una pagina Facebook per raccogliere le ordinazioni dei clienti, finché la protesta mite di Asmaa è giunta addirittura sulle pagine del quotidiano britannico The Guardian.

Da una prigione di Alessandria, invece, giunge, di tanto in tanto, la voce del poeta Omar Hazek, anche lui incarcerato per aver protestato. Oltre a scrivere lettere toccanti sulla sua condizione di prigioniero, all’approssimarsi dell’ultima festa di Aid al-Fitr, Hazek ha iniziato a imparare l’arte dell’origami. Come racconta nella sua ultima lettera, l’origami era un suo vecchio sogno e, vedendo della carta da lettere colorata inviata a un compagno di prigionia, ha deciso finalmente di provare. Dopo un po’ di tentativi, è riuscito a creare dei bellissimi origami colorati. Uccelli soprattutto, simbolo di libertà. Li ha donati ai compagni incarcerati, in modo che questi potessero regalarli, in occasione dell’Aid, ai loro figli e familiari.

Anche l’attivista per i diritti umanai Yara Sallam, altra vittima della legge anti-proteste, ha scelto l’origami. Lei, però, ha preferito creare segnalibri colorati, scrivendo su ognuno, con affettuosa attenzione, una frase adatta alla personalità del destinatario.

In tutte queste forme creative di resistenza colpisce soprattutto una cosa: i colori. Dall’interno di tetre, durissime prigioni, questi giovani sono capaci di immaginare e creare mondi arcobaleno. I gridi di libertà colorati di Asmaa, Omar e Yara non saranno facilmente zittiti.

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