Scrivo a poche ore dagli atti di terrorismo e di violenza (anche antisemita) che hanno sconvolto la Francia. Sull’onda dell’indignazione suscitata da questi atti terroristici, si inseguono le levate di scudi contro i musulmani, che per qualcuno andrebbero addirittura cacciati dall’Europa.
Certamente, come ha denunciato Papa Francesco, è in atto una «guerra mondiale a pezzi»: frange dell’Islam radicale vedono nell’Occidente e nel mondo cristiano il peggior nemico, in quanto portatore di quei valori d’uguaglianza e libertà contrari ad una visione totalitaria della società (seppure di matrice religiosa).
Ma il tema centrale – mentre compete ai servizi di sicurezza dei Paesi europei il compito di individuare le cellule terroristiche, spesso composte da immigrati di seconda generazione e da europei convertiti di ritorno dalle varie guerre in atto in Medio Oriente, Siria e Iraq in testa – è questo: l’Islam politico e il terrorismo che da esso prende linfa, costituiscono un danno, prima che per le società occidentali, per il mondo musulmano.
Lo ha spiegato chiaramente l’ayatollah Muhammad Saeed Al Hakim, seconda autorità sciita in Iraq dopo Ali al-Husayni Al Sistani, in un’intervista rilasciata a Terrasanta.net. Il religioso musulmano ha parlato apertamente di «criminali che offendono l’Islam e che costituiscono un pericolo per l’intera umanità». E ancora: «Occorre spronare i capi politici, i religiosi e i media a smascherare gli obiettivi e le intenzioni malvagie di questi terroristi».
Da una parte dunque, noi cristiani non dobbiamo cadere nella trappola dell’islamofobia.
Siamo viceversa chiamati, come ci esorta il Papa, a «collaborare con persone di altre religioni, con gli ebrei e con i musulmani (…). Il dialogo interreligioso è tanto più necessario quanto più difficile è la situazione. Non c’è un’altra strada. Il dialogo basato su un atteggiamento di apertura, nella verità e nell’amore, è anche il migliore antidoto alla tentazione del fondamentalismo religioso, che è una minaccia per i credenti di tutte le religioni. Il dialogo è al tempo stesso un servizio alla giustizia e una condizione necessaria per la pace tanto desiderata» (Lettera del Santo Padre Francesco ai cristiani del Medio Oriente).
D’altro canto però l’Islam stesso, al suo interno, deve alzare la voce per condannare le «intenzioni malvage» che non possono essere secondo Dio.
Il 4 dicembre scorso, al Cairo, presso l’Università al-Azhar, il maggior centro teologico dell’Islam sunnita, si è tenuta una conferenza per condannare il terrorismo e l’estremismo di matrice islamista. Molti degli interventi hanno avuto lo scopo di offrire un’interpretazione corretta dei concetti strumentalizzati dai terroristi, come per esempio il jihad, che è un «combattimento» di natura prima di tutto spirituale. Ma la strada da percorrere, per fare in modo che un Islam moderato e tollerante prevalga su certe letture fondamentaliste e violente è ancora lunga. E fuori dalle ipocrisie, serve che l’Islam (ovunque esso sia presente) chiarisca a se stesso questo aspetto: la violenza che certi sedicenti islamici propugnano si fonda sul messaggio stesso dell’Islam oppure è da rifiutare in toto, come del resto ha fatto il cristianesimo (per amore di verità non senza dolorosi travagli storici)? Dopo le stragi, le decapitazioni, gli stupri, gli attentati (spesso ai danni dei cristiani nei Paesi del Medio Oriente) sul tema violenza l’unica parola da dire è un no forte e chiaro.
Non ci può essere violenza di «matrice islamica» (come di nessun altra matrice religiosa) perché l’unico Dio non può volere la morte dei suoi figli.