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Rubinetti avari a Gerusalemme Est, intervengono i giudici

di Giorgio Bernardelli
22 gennaio 2015
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In alcuni dei quartieri (palestinesi) di Gerusalemme Est la carenza di acqua potabile è endemica per una precisa scelta del gestore degli acquedotti e delle autorità municipali. Nei giorni scorsi l'Alta Corte di Giustizia di Israele ha accolto il ricorso di un'associazione per i diritti umani e sentenziato che questo comportamento è in aperta contraddizione con la stessa legislazione israeliana.


Immaginate di vivere in una grande città e a un certo punto di aprire il rubinetto e ritrovarvi senz’acqua. Non solo per qualche ora, ma per tre settimane ininterrotte. Non per un guasto, ma perché la rete idrica del tuo quartiere, per una scelta di chi la gestisce, non riceve acqua a sufficienza. Immaginate che le cose vadano avanti così per buona parte dei dieci mesi successivi, con un rubinetto che continua a funzionare a singhiozzo.

È esattamente quanto sta capitando a Gerusalemme nei quartieri palestinesi di Ras Shehada, Ras Khamis, Dahyat A’salam e nel campo profughi di Shufat: da mesi vi sono problemi molto seri nei rifornimenti di acqua potabile. Piccolo particolare non insignificante: i quartieri in questione sono gli stessi che amministrativamente restano ancora compresi entro i confini municipali di Gerusalemme – così come stabiliti nel 1980, quando la Città santa venne proclamata unilateralmente come capitale indivisibile di Israele – ma di fatto sono separati dal resto della città, perché posti al di là del muro di separazione.

La vicenda va avanti dal marzo 2014 quando la società israeliana che gestisce l’acquedotto – Ha-Gihon – ha drasticamente ridotto i rifornimenti, citando come motivazioni le immancabili questioni di sicurezza e l’alto tasso di morosità nei pagamenti. Il problema, però, è evidentemente quello dello status giuridico di queste zone, rimaste in una sorta di limbo: i palestinesi che vi abitano sono per la stessa legge israeliana cittadini di Gerusalemme est e dunque dovrebbero poter usufruire dei servizi cittadini. Ma è così solo sulla carta: trattandosi di zone periferiche e sostanzialmente insignificanti dal punto di vista ebraico, la municipalità di fatto non li considera più suoi cittadini. E quindi non investe nulla per questi quartieri dove vivono solo palestinesi.

Solo che questo comportamento è in aperta contraddizione con la stessa legislazione israeliana: a dirlo è stata in questi giorni l’Alta Corte di Giustizia israeliana che a Gerusalemme si è pronunciata su un ricorso dedicato alla vicenda e presentato dall’Associazione per la tutela dei diritti civili in Israele (Acri). Di fronte all’evidenza di un’infrastruttura idrica in grado di servire 15 mila persone in un’area i cui abitanti sono (a seconda delle stime) tra i 60 e gli 80 mila, l’Alta Corte israeliana ha ingiunto ad Ha-Ghion, alla municipalità di Gerusalemme e al ministero delle Infrastrutture di adottare provvedimenti immediati per risolvere la situazione; aggiungendo che tra 60 giorni queste istituzioni dovranno anche riferire su quanto fatto.

La notizia della sentenza dell’Alta Corte è importante perché riporta in primo piano uno di quelli che in teoria sarebbero i «fondamentali» del conflitto israelo-palestinese, vale a dire la gestione dell’acqua, bene preziosissimo in Medio Oriente. La furia sui dibattiti ideologici – ma anche la coltre fumogena creata dalla violenza, che ancora in questi giorni si è fatta sentire con un attacco all’arma bianca sferrato da un giovane palestinese contro i passeggeri di un autobus israeliano – finisce per lasciare sempre in ombra le ingiustizie più concrete, che sono poi quelle che vanno a toccare realmente la vita delle persone in Terra Santa.

Vale la pena di aggiungere, inoltre, che – anche al di là del caso di Gerusalemme – la questione dell’acqua è più in generale uno dei temi destinati a tornare in primo piano in questa fase del braccio di ferro tra Israele e Palestina. In questo inizio 2015 infatti – insieme alla richiesta di essere ammessa come Stato membro alla Corte penale internazionale – la Palestina ha presentato all’Onu analoghe domande anche per altri diciassette organismi internazionali. E tra questi c’è anche la Convenzione Onu sui corsi d’acqua, che prevede un’equa ripartizione delle risorse idriche nel caso di fiumi o sorgenti che si trovano sul confine tra due Stati diversi. Evidente l’interesse della Palestina a veder applicato questo criterio sul fiume Giordano e sul grande bacino acquifero della Cisgiordania, le cui risorse idriche oggi vengono utilizzate in maniera massiccia da Israele lasciando all’Autorità palestinese solo le briciole. Gli Accordi di Oslo su questo punto avevano lasciato tutto provvisoriamente nelle mani di Israele, indicandolo come uno dei punti da definire nell’intesa sullo status finale. Solo che quell’intesa poi in vent’anni non è mai arrivata e oggi non si intravvede all’orizzonte. Così ora anche su questo la Palestina si rivolgerà all’Onu, con un nuovo braccio di ferro diplomatico sul quale il mondo dovrà decidere da che parte stare.

Clicca qui per leggere un articolo di +972 sulla sentenza della Corte Suprema riguardo alla gestione dell’acqua a Gerusalemme

Clicca qui per leggere la notizia sull’adesione della Palestina alla Convenzione Onu sui corsi d’acqua

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