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«Monaco in Kurdistan, perché ognuno si senta accolto»

Francesco Pistocchini
8 gennaio 2015
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«Monaco in Kurdistan, perché ognuno si senta accolto»
Padre Jens Petzold. (foto: Kirche in not)

Padre Jens Petzold è il superiore della comunità monastica di Sulaymania, una «costola» del monastero siriano di Mar Mousa impegnata nel dialogo interreligioso. Racconta, in questa intervista, il senso di una presenza mite e inerme in questa fase di violenze nel Nord dell’Iraq e parla delle prove che le minoranze, non solo cristiane, stanno subendo.


Sulaymania è uno dei principali centri del Kurdistan iracheno. La città ospita una comunità monastica cristiana nata dall’esperienza di Deir Mar Musa in Siria, un’esperienza di preghiera e accoglienza, di dialogo con tutti, specialmente con la maggioranza musulmana. Padre Jens Petzold, tedesco, è il superiore di questa comunità e dal febbraio 2012 è incaricato di occuparsi di una chiesa ottocentesca dedicata alla Vergine, nel quartiere di Sabunkaran. La comunità di padre Jens è stata invitata a inserirsi tra la gente di Sulaymania dall’allora vescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako, che oggi è patriarca di tutti i caldei, cristiani di tradizione orientale ma uniti alla Chiesa di Roma e che in Mesopotamia hanno il loro insediamento storico.

Da quando la regione è sconvolta per l’avanzata degli estremisti dello Stato Islamico, le città curde sostengono i peshmerga, i soldati curdi, contro i jihadisti e vivono quasi in prima linea lo scontro tra milizie del sedicente califfato e forze della coalizione internazionale che le affronta. «A Sulaymania il clima non è di angoscia o di paura – ci spiega padre Jens, che ha accettato di rispondere alle nostre domande -. Solo chi è direttamente impegnato nella sicurezza o nel lavoro con i rifugiati ha un contatto diretto con la crisi in corso».

Ci parli della sua comunità.
Deir Maryam al-Adhra, cioè il monastero della Vergine Maria, nasce da Deir Mar Musa al-Habashi, la comunità monastica in Siria, non lontana da Damasco, che prega per l’Islam e si impegna a promuovere il dialogo tra le due religioni.
Dopo l’invito da parte di mons. Sako nel 2010, nell’autunno del 2012 fui incaricato dalla mia comunità di origine a iniziare la fondazione di un nuovo monastero. Sfortunatamente la guerra civile in Siria non ci ha permesso di avere un continuo scambio di monaci e monache con il monastero madre, ma abbiamo comunque cercato di ricevere novizi stranieri qui a Sulaymania. Speriamo che, in un futuro più pacifico, potremo approfittare dei diversi doni che offrono i membri di Deir Mar Musa, per tenere anche noi giornate di riflessione, seminari e incontri interreligiosi.

L’impegno per il dialogo tra cristiani e musulmani era già una sfida prima dell’offensiva dello Stato Islamico, perché la concordia interreligiosa non è scontata nel Nord dell’Iraq…
A Sulaymania vogliamo creare un luogo di ospitalità e riflessione e vorremmo offrire la possibilità di fare esercizi spirituali. Vorremmo dare agli studenti e a tutti gli interessati la possibilità di conoscere meglio la spiritualità e la teologia delle due religioni, affrontando le problematiche di una società multireligiosa e multietnica come questa. Ma soprattutto vogliamo che ogni persona che arriva da noi si senta benvenuta.

Accogliete ancora rifugiati che arrivano da zone del Nord dell’Iraq in conflitto?
Abbiamo iniziato a luglio ad accogliere sfollati quando c’è stata la presa di Mosul da parte dello Stato Islamico. Poi la maggioranza di queste persone ha potuto tornare ai propri villaggi. Ma dopo il 7 agosto c’è stata un nuova ondata di persone in fuga, quando i jihadisti hanno lanciato un’offensiva che li ha condotti quasi a Erbil, il capoluogo del Kurdistan iracheno. Gli sfollati che ospitiamo arrivano da Qaraqosh e Bartalla, due villaggi a sud-est di Mosul.
Al momento abbiamo la responsabilità di 197 rifugiati. 93 di essi vivono nel monastero e gli altri in case abbandonate del centro storico vicine al monastero. Le case erano ancora in buone condizioni: con un minimo di lavori in collaborazione tra noi e gli sfollati stessi le abbiamo rese adeguate per l’accoglienza.

In che condizioni si trovano queste persone?
In generale stanno bene dal punto di vista della salute. Vivono però nell’incertezza, senza sapere quando potranno rientrare nelle loro case. E un fattore di angoscia è non sapere che cosa è stato delle case. Molte famiglie sono formate da giovani che hanno da poco costruito con amore la propria abitazione e hanno la paura, se non la certezza, che tutto ciò che era loro caro è stato derubato. Ad alcuni restano solo alcune foto delle nozze, l’immagine del nonno nei cellulari che hanno portato con sé. E poi c’è l’angoscia per i parenti rimasti nei territori controllati dagli islamisti.

Ci racconti l’esperienza di una famiglia che avete accolto.
Un giovane padre di famiglia, che lavorava come guardia, si accorge insieme ai compagni che i peshmerga stanno partendo dal villaggio. Fa una verifica presso gli altri posti di guardia e scopre che non è un semplice spostamento, ma una vera fuga. Allora avvisa subito i parenti, i vicini di casa, raccoglie i documenti, i contanti e parte rapidamente in auto, senza nemmeno avere il tempo di fare i bagagli. In molti casi gli sfollati hanno abbandonato così le loro case.

Ha notizie della situazione di cristiani o yazidi perseguitati?
La comunità degli yazidi è stata colpita in modo molto duro. A differenza dei cristiani, che sono stati solo derubati, gli uomini yazidi spesso sono stati uccisi e le donne e le ragazze sono state rapite. Anche altre minoranze, curdi e arabi sciiti, hanno subito maltrattamenti. Nella sfortuna, i cristiani sono stati i più fortunati tra le vittime.

Politica e religione appaiono molto confuse in questo momento. Una città grande come Mosul è caduta facilmente nelle mani dello Stato Islamico. Come si spiega?
È vero: la politica è molto confusa e ci sarebbe molto da chiarire sulla presa di Mosul, un’impresa che sembrava impossibile. Tanti responsabili politici dell’Iraq e curdi dovrebbero sottoporsi a inchieste serie. Chiarire le responsabilità di questo disastro aiuterà sia l’Iraq sia la regione autonoma curda a scegliere le persone che guideranno queste terre nel futuro.

Per il Kurdistan iracheno quale avvenire si prospetta?
Ci sono diversi Kurdistan. Spero che i diversi gruppi si mettano finalmente insieme per il bene comune. Ci sono alcuni segnali buoni, ma anche situazioni che indicano ancora incredibile egoismo e avidità.

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