Andare per l’Italia araba, come recita il titolo di questo monologo vivacissimo, erudito, ricco di riflessioni che lo storico medievista Alessandro Vanoli intavola con i lettori, significa ripercorrere la storia di un incontro tra una penisola al centro del Mediterraneo e il mondo islamico che la circonda a Oriente e a Meridione. La storia è nei dettagli, scrive a ragion veduta Vanoli raccontando anche avventure e peripezie di personaggi che hanno visssuto a cavallo dei due mondi.
L’anno 827 non segnò solo l’inizio dell’invasione araba della Sicilia da parte degli Aghlabiti, in seguito alla quale l’intera isola sarebbe divenuta islamica per due secoli. Fu anche l’anno in cui due mercanti veneziani riuscirono a trafugare le spoglie di san Marco da Alessandria d’Egitto e, avendole ricoperte di carne di maiale, ad eludere le ispezioni dei disgustati doganieri che avevano aperto la cassa. Un anno epocale nella relazione ininterrotta fatta di scambi, scontri e traffici che l’Italia ebbe con la civiltà araba, come ricostruisce l’autore di questa godibilissima guida a storie e luoghi poco conosciuti del nostro Paese.
Il fatto è che Andare per l’Italia araba, come recita il titolo di questo monologo vivacissimo, erudito, ricco di riflessioni che lo storico medievista Alessandro Vanoli intavola con i lettori, significa ripercorrere la storia di un incontro tra una penisola al centro del Mediterraneo e il mondo islamico che la circonda a Oriente e a Meridione. Significa raccontare una presenza ininterrotta lungo quattordici secoli di mori (ovvero berberi), saraceni (ovvero arabi), turchi e persiani nei porti, nei mercati, nelle relazioni diplomatiche, nei libri e nelle opere di letterati e artisti che hanno raffigurato l’Oriente senza averlo mai visto, come si vede nell’incredibile castello di Sammezzano, a Leccio, nel fiorentino, generato dall’estroso Ferdinando Panciatichi-Ximenes d’Aragona negli anni Cinquanta dell’Ottocento sulla base delle monografie inglesi e francesi sull’Alhambra di Granada, oggi in attesa di restauri per esser riaperto al pubblico. O come si vede in un altro coevo «sogno d’Oriente» come l’arabeggiante Rocchetta Mattei a Riola di Vergato, sull’Appennino tosco-emiliano, costruita tra il 1850 e il 1859 dallo studioso bolognese Cesare Mattei sulla base dei ruderi del castello di Savignano-Lungoreno.
Una passeggiata nell’Italia araba, spiega Vanoli, significa sì andare alla ricerca delle tracce lasciate dalla dominazione araba in Sicilia, in Puglia, lungo le coste adriatiche e tirreniche. Ma quelle tracce sono spesso mascherate, nascoste, troppo lontane nel tempo per esser visibili. Allora occorre immaginazione e conoscenza storica per poterle individuare. Come si vede ad esempio nel mausoleo che il normanno Boemondo, figlio di Roberto il Guiscardo, fece erigere dopo il 1111 a Canosa, in Puglia, ricalcando le forme del tempietto che sovrasta il Santo Sepolcro di Gerusalemme, memoria di una Tomba vuota, nostalgia d’Oriente e ricerca di un contatto con l’Invisibile le cui tracce vennero disseminate in quegli anni in molti luoghi d’Europa e del Mediterraneo. Occorre inforcare un nuovo paio di occhiali per ravvisare nel nostro presente le tracce del passato.
Non è un caso che lo storico inizi il suo viaggio a Palermo, intorno al mercato della Vucciria dove un tempo sorgeva il grande porto della città e tra le cupole rosse (forse frutto di un restauro ottocentesco) della splendida chiesa di san Giovanni degli Eremiti, e lo concluda tra le bancarelle di Porta Palazzo a Torino, il più grande mercato all’aperto d’Europa, dove oggi risuona una babele di lingue e affiorano profumi che ci interpellano ogni giorno sulle reciproche diffidenze e paure con quel mondo arabo musulmano in Italia (secondo un censimento del 2010 sono attive 769 moschee nel nostro Paese) che è parte del cosiddetto Islam d’Occidente, il rapporto con il quale è una delle questioni cruciali del nostro tempo, come gli attentati di inizio anno a Parigi ci hanno brutalmente ricordato.
La storia dell’Italia araba è stata spesso una storia di mare, racconta Vanoli. Ciò non vale solo per Amalfi, che una guida tedesca del 1845, in piena ascesa del movimento orientalista, descriveva come quasi un «quartiere di Tunisi o Algeri, dove la selvaggia pronuncia dei marinai, il loro abito quasi moresco (…), i loro costumi mezzo barbari serbano le tracce della loro origine e favoriscono in certo modo l’illusione», o come si vede nello splendido chiostro moresco di Villa Rufolo a Ravello, una delle più belle terrazze d’Europa oggi sede del Festival internazionale di musica wagneriana. È vero anche per Livorno, il cui sviluppo mostra come la schiavitù sia stata per secoli uno dei punti di legame con l’Oriente. E ovviamente è vero per Venezia, la città che più reca l’impronta dei fittissimi scambi commerciali, culturali, diplomatici intrattenuti con l’Oriente.
La storia è nei dettagli, scrive a ragion veduta Vanoli raccontando avventure e peripezie di personaggi che hanno intessuto la storia del Mediterraneo, vivendo esistenze a cavallo dei due mondi, per così dire. Tra le storie meno note e perciò tanto più interessanti figurano quelle afferenti al rapporto che il papato ha intrecciato con i musulmani e i convertiti (i cosiddetti moriscos, come nel 1619 vennero chiamate le 157 famiglie di islamici spagnoli convertiti censite nella parrocchia di santa Maria del Popolo a Roma), e con quei neofiti arabi, come ricorda l’antico Collegio nell’omonima via dei Neofiti del rione Monti, che per vocazione o per opportunità intraprendevano la carriera ecclesiastica.
Alessandro Vanoli
Andare per l’Italia araba
il Mulino, Bologna 2014
pp. 114 – 12,00 euro