Dopo una lunga serie di avvisaglie di crisi nella maggioranza che lo sosteneva, all’inizio del dicembre il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha rotto gli indugi e dichiarato che il suo terzo governo era giunto al capolinea. Il Paese andrà alle elezioni anticipate il 17 marzo prossimo e il leader del Likud – riconfermato dal suo partito come candidato alla carica di primo ministro – spera di uscire rafforzato dalla tornata elettorale. In qualche misura il voto sarà anche un referendum su di lui in quanto timoniere affidabile dentro un Medio Oriente in tempesta.
E tuttavia gli analisti spiegano che, come accadde nel 2013, anche stavolta l’attenzione dei cittadini votanti si concentrerà in gran parte sulle questioni interne, e in particolare su quelle di natura socio-economica. Pur se con accenti diversi anche Israele risente della crisi che affligge la vicina Europa ed altre aree del pianeta. Basti considerare un elemento: anche stavolta un partito nuovo (su posizioni centriste) si sottopone al vaglio dell’elettorato: si chiama Kulanu («Noi tutti») ed è stato fondato nel novembre scorso da Moshe Khalon (54 anni, proveniente dalle file del Likud). Il suo programma si caratterizza proprio per l’attenzione ai temi economici e una migliore distribuzione della ricchezza. Un approccio che nella precedente campagna elettorale era già stato privilegiato dalla formazione Yesh Atid («C’è un futuro») del mezzobusto televisivo Yair Lapid, il quale nel governo uscente ha ricoperto il ruolo di ministro delle Finanze, senza riuscire a mantenere tutte le sue promesse.
Anche la coalizione di centro sinistra (il cosiddetto Campo sionista, formato dai laburisti di Isaac Herzog e dal partito Hatnuah di Tzipi Livni) creata per provare a scalzare Netanyahu cercherà di far leva sulla performance insoddisfacente del suo esecutivo in campo economico. Per quel che valgono, i sondaggi dicono che il Likud e il Campo sionista sono in testa alle preferenze dei rispettivi elettorati in condizione di quasi parità.
Netanyahu, politico scafato, ha tutto l’interesse a cavalcare la questione delle minacce esterne cui Israele deve far fronte (Iran, Hamas, Hezbollah ed ora anche lo Stato Islamico e l’antisemitismo in Europa). Sono temi che lui conosce bene e affronta con una retorica efficace. I drammatici attacchi terroristici di Parigi, nella seconda settimana del 2015, gli hanno consentito di ribadire le sue posizioni classiche. I suoi avversari, dentro e fuori il Paese, gli rimproverano però mancanza di visione e di coraggio. Una miopia strategica, che a loro avviso, sta portando Israele verso una situazione di isolamento internazionale senza precedenti e, forse, senza ritorno.