«Abbiamo a che fare con una delle più gravi catastrofi ecologiche della storia di Israele». Parola del ministro dell’Ambiente, Guy Samet, dopo l’incidente avvenuto il 3 dicembre scorso nel sud del Paese, quando un oleodotto è esploso non lontano da Eilat, spargendo per decine di chilometri tra i 4 e i 5 milioni di litri di petrolio.
(n.k./g.s.) – «Abbiamo a che fare con una delle più gravi catastrofi ecologiche della storia di Israele». È in questi termini che il ministro dell’Ambiente, Guy Samet, parla dell’incidente avvenuto il 3 dicembre scorso nel sud del Paese.
Una condotta della Società Oleodotto Eilat-Ashkelon è esplosa 21 chilometri a nord di Eilat spargendo per decine di chilometri 4 o forse 5 milioni di litri di petrolio. La causa di questo dramma ecologico resta ignota. Alcuni sostengono che un’automobile si sia schiantata contro l’oleodotto, altri che l’esplosione sia stata involontariamente provocata da una squadra di tecnici intenti a modificare il tracciato della condotta in vista della costruzione del nuovo aeroporto di Eilat.
L’impatto sull’ambiente è molto serio. Il petrolio rischia di soffocare la già rara flora del deserto. Ma sono soprattutto le falde freatiche a preoccupare le autorità. In Israele questa è la stagione piovosa e se dovesse piovere anche a sud del Paese il petrolio sparso al suolo potrebbe penetrare più in profondità a contaminare le falde. Inoltre l’acqua piovana potrebbe sospingere il liquido nero (non ancora rimosso dagli interventi d’emergenza) verso il Mar Rosso.
L’oleodotto attraversa la riserva naturale di Evrona. Molti temono danni per la fauna e le specie protette stanziate su questo territorio. Gli ambientalisti sono anche preoccupati per gli esemplari di palma dum (Hyphaene thebaica), che dall’Egitto si è diffusa in quest’area ed è particolarmente rara.
Trovandosi in un’area desertica, l’oleodotto non minaccia direttamente la popolazione, ma va detto che 80 persone di nazionalità giordana hanno fatto ricorso ai medici per difficoltà respiratorie.
Di fronte al disastro la compagnia petrolifera responsabile dell’oleodotto si è detta «rammaricata per i danni», assicurando che farà «quanto è necessario per riparare». Un comunicato alquanto laconico, che vela una realtà poco nota: l’oleodotto è una delle principali infrastrutture strategiche del Paese.
Risulta perciò comprensibile che un certo silenzio circondi la catastrofe ecologica. Il silenzio regna anche in seno alla compagnia, che circonda di riserbo il proprio operato. La Società, ad esempio, non subisce controlli sul bilancio o sulle attività e il personale viene assunto dopo attente indagini dei servizi di sicurezza. Regole precauzionali che si spiegano, appunto, con il carattere strategico dell’infrastruttura ma anche con la storia dell’azienda.
La società petrolifera venne creata nel 1968, come frutto di una collaborazione tra Israele e l’Iran, ai tempi in cui i due Stati mantenevano buone relazioni (la rivoluzione islamica degli ayatollah, del 1979, era ancora lontana) e siglavano importanti contratti economici, condividendo anche i proventi generati dalla vendita di petrolio.
Dopo il ’79 e la rottura delle relazioni diplomatiche tra l’Iran e Israele, lo Stato ebraico ha rifiutato di versare il 50 per cento degli introiti dovuti agli iraniani. Cosa che ha indotto il regime di Teheran ad avviare procedure internazionali per indurre Israele a rimborsare le somme mai versate.
In seguito a un procedimento durato vent’anni, l’arbitraggio svizzero ha emesso un primo verdetto, intimando a Israele di versare 100 milioni di dollari all’Iran. È tuttavia poco probabile che lo Stato ebraico si decida a rimborsare il debito. Con l’Iran c’è in corso una sorta di «guerra fredda» dagli anni Ottanta e il clima si è tanto più deteriorato con la questione del nucleare iraniano (ufficialmente a scopi civili, ma che Israele denuncia come il tentativo di Teheran di dotarsi dell’arma atomica).