Una scuola per bambini disabili, per includerli nelle scuole pubbliche e nella società palestinese. È la sfida lanciata a Beit Fajjar, villaggio della Cisgiordania di 12 mila abitanti, a metà tra Betlemme e Hebron. All’origine del progetto l’associazione Maysoon’s Kids, fondata dall’attrice e comica palestinese-statunitense Maysoon Zayid, affetta da paralisi celebrale.
Una scuola per bambini disabili, non per creare ulteriori ghetti ma per includerli nelle scuole pubbliche e nella società palestinese. È la sfida lanciata in un villaggio della Cisgiordania, a metà tra Betlemme e Hebron, circondato dalle colonie israeliane. Beit Fajjar conta 12mila abitanti; l’85% del villaggio è in Area B (sotto il controllo civile palestinese e quello militare israeliano) e il restante 15% in Area C (sotto il totale controllo israeliano).
Al centro della cittadina sta un palazzo in pietra bianca, tipica produzione di Beit Fajjar: è la sede di un centro ricreativo per bambini disabili psichici e fisici e da tre mesi anche la sede della prima scuola dedicata ai minori con disabilità. Al pianoterra, per permettere l’accesso delle carrozzine, la scuola conta diverse aule – dedicate alle lezioni, alla riabilitazione e al gioco – una piccola cucina dove le mamme dei bambini preparano colazioni e pranzi e un parco giochi all’aperto.
Dietro l’avvio del progetto sta l’associazione Maysoon’s Kids, organizzazione no profit fondata dall’attrice e comica palestinese-statunitense Maysoon Zayid, affetta da paralisi celebrale. Quest’anno il progetto è partito: una classe di otto alunni che segue il normale curriculum scolastico governativo, con gli stessi libri e gli stessi esami.
«Il nostro obiettivo è dare un’educazione ai bambini che restano esclusi dalle scuole pubbliche, nonostante abbiano le capacità e la voglia di studiare – ci spiega Bilal Afandi, uno dei responsabili del progetto – L’insegnante tiene classi di arabo, inglese, matematica e scienze, accanto ad attività di socializzazione che tengono conto delle diverse necessità di ogni alunno».
Entriamo in classe, i bambini sono seduti ai loro banchi, il libro aperto davanti: l’insegnante disegna un albero alla lavagna, una scala e un bambino di nome Ahmad. Gli alunni contano in coro gli scalini: uno, due, tre, fino a dieci. E poi a ritroso: dieci, nove, otto…
«Le prime settimane sono state difficili, a causa dell’iperattività di alcuni alunni. Abbiamo insegnato loro a restare seduti durante le lezioni e concentrarsi negli studi. Ognuno ha un iPad, per aiutarli nello studio se hanno problemi motori e di uso delle mani. La scorsa settimana c’è stato il primo esame: è stato un passo importante».
A monte stanno le difficoltà legate alla cultura della società palestinese e l’immagine che dei disabili ha gran parte della popolazione, soprattutto quella che vive nei piccoli villaggi e che non ha una sufficiente educazione sul tema della disabilità: «Prendiamo il caso di Beit Fajjar: è una comunità chiusa, non educata ad affrontare questo tipo di sfida – continua Bilal – Se in una famiglia c’è un disabile, si tenta di nasconderlo, di lasciarlo in casa. Gli stereotipi verso la disabilità sono ancora radicati e abbiamo avuto difficoltà a convincere le famiglie ad aderire al progetto. Per questo ora le coinvolgiamo più che possiamo, con feedback continui, incontri, partecipazione alle attività. I risultati sono ottimi: molte altre famiglie ci hanno contattato perché includessimo i loro figli nel programma».
Bambini che non trovano spazio nelle strutture pubbliche o, se lo trovano, non vengono adeguatamente seguiti. Le scuole governative non sono in grado di accoglierli e includerli: non sono accessibili ai disabili, sono affollate (in Cisgiordania la media di bambini per classe supera le 40 unità), le insegnanti non sono formate a gestire la disabilità.
«La nostra scuola e il centro che la ospita servono sette villaggi intorno a Beit Fajjar, tra cui il campo profughi di Al Arroub e Beit Surif. Per ora siamo riusciti ad aprire una sola classe di otto bambini, ma il nostro obiettivo è crescere ulteriormente, in altre comunità della Cisgiordania. E poi fare il passo successivo: inserirli nelle scuole pubbliche, per evitare di ghettizzarli in classi speciali».
Un rischio concreto legato alla visione che della disabilità hanno ancora ampie porzioni della società palestinese: «La disabilità è vista come un problema che conduce all’esclusione sociale – ci spiega Luca Ricciardi, capo progetto per la ong italiana Educaid, impegnata in tre diversi progetti a Gaza e in Cisgiordania a favore dei disabili – La cultura è legata alla religione e avere un disabile in famiglia è spesso visto come una punizione. Così per evitare critiche e commenti, si preferisce relegare il disabile in casa. Questo si verifica soprattutto nei piccoli villaggi, in Area C, e a Gaza».