«La Turchia è un crocevia fondamentale della Storia cristiana. Ma è anche uno snodo politico e strategico della Storia contemporanea. Il Papa, venendo qui, si fa ambasciatore di una Chiesa che sta ai crocevia, che è vicina alle sofferenze, al battito del cuore di questa umanità di oggi». Parole di Claudio Monge, superiore della comunità domenicana di Istanbul e grande conoscitore del Paese, in un'intervista con Terrasanta.net.
«La Turchia è un crocevia fondamentale della Storia cristiana. Ma è anche uno snodo politico e strategico della Storia contemporanea, in un’area caldissima del pianeta, punto di incontro – e talvolta di scontro – tra le fedi. Il Papa, venendo qui, si fa ambasciatore di una Chiesa che sta ai crocevia della Storia; alle periferie, che è vicina alle sofferenze, al battito del cuore di questa umanità di oggi».
Padre Claudio Monge, superiore della comunità domenicana di Istanbul e grande conoscitore del Paese, spiega così il significato del viaggio che Papa Francesco compirà dal 28 al 30 novembre in Turchia. Tre giorni fitti di incontri istituzionali (con autorità politiche, leader musulmani e della Chiesa ortodossa) in un Paese profondamente islamico.
«Bisogna pensare che noi italiani abbiamo occhiali tutti particolari quando guardiamo al ruolo del Papa – spiega padre Monge -. Per l’opinione pubblica turca, invece, il Pontefice è un capo di Stato come tanti, tutt’al più un leader religioso che si segue con una certa curiosità… Certo, l’interesse salirà molto al suo arrivo. E siamo tutti in attesa di ascoltare le sue parole».
Com’è la Chiesa di Turchia che attende il Papa?
Le statistiche parlano di 53 mila cattolici su 79 milioni di cittadini; 54 parrocchie e una sessantina di sacerdoti. Ma le cifre statistiche vanno prese con le pinze. Questi numeri potrebbero indurre a pensare che la Chiesa in Turchia, di così piccole dimensioni, sia irrimediabilmente destinata a scomparire. Invece si tratta di una Chiesa in mutazione, in evoluzione, che deve, più che nel passato, conciliare un’anima storica con una storia che cammina. Oggi abbiamo tanti nuovi credenti che vengono dall’estero: ad esempio dall’Africa sub-sahariana, dalle Filippine e dall’Asia, e molti cristiani dell’Est, soprattutto ortodossi… la presenza cristiana non sta scomparendo! Sta sicuramente cambiando. Arrivano in Turchia uomini, donne, bambini e anziani che spesso si trovano in condizioni difficili, in una terra che non è la loro e che chiedono prima di tutto di essere accolti.
Molti arrivano da Paesi come Siria e Iraq, sconvolti dalla guerra.
Arrivano spesso disperati. Il nostro compito, oggi, è di permettere loro di incontrare in questa terra, anche se la visiteranno solo di passaggio, il Cristo vivo. In questo senso, probabilmente non facciamo ancora abbastanza: dobbiamo capire sempre di più che i nuovi cristiani che vengono da altre parti del mondo, chiedono innanzitutto una umanità accogliente, di vedere quel volto del Cristo che prima di tutto è vicino ai poveri, ai sofferenti, ai senza terra, ai senza radici. Papa Francesco ce lo ripete in ogni momento. Ma mi viene in mente un passaggio dell’Instrumentum laboris per il Sinodo della nuova evangelizzazione che avevo trovato straordinario. Sottolineava il fatto che la fede cristiana non è innanzitutto una dottrina, un insieme di regole morali, una tradizione; è invece un incontro esistenziale, una relazione con Gesù Cristo.
La visita del Papa in Turchia nasce da un invito preciso di Bartolomeo, patriarca ecumenico di Costantinopoli. Al tempo stesso è l’ennesimo gesto di dialogo ecumenico a cui Francesco ci ha abituato.
Certamente Bartolomeo ha invitato Papa Francesco a celebrare insieme, ad Istanbul, la festa dell’apostolo sant’Andrea. Questo invito rientra in una dinamica attiva ormai da anni tra il patriarcato ortodosso di Costantinopoli e la Chiesa di Roma, in base alla quale i rispettivi rappresentanti presenziano alle feste “patronali” delle due Chiese (il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, a Roma, e sant’Andrea il 30 novembre, ad Istanbul, l’antica Costantinopoli). Non dimentichiamo che, nel 2006, Benedetto XVI venne ad Istanbul, sempre in occasione della festa di sant’Andrea; a sua volta, il patriarca Bartolomeo è stato il primo patriarca non cattolico della storia ad assistere al momento dell’investitura di un pontefice, quando si recò a Roma per l’inizio del pontificato di Francesco. Non c’è dubbio che tra Bartolomeo e Francesco esista un rapporto sincero e fraterno che potrebbe riservare delle sorprese.
In che senso?
È chiaro che non tutti i capi delle Chiese ortodosse, che sono autocefale, vedono con entusiasmo l’intesa tra i due. Sappiamo che il patriarca di Costantinopoli si sta facendo promotore, e stiamo pregando per questo, di un grande sinodo pan-ortodosso, per il 2016. Un incontro che vorrebbe essere una sorta di corrispettivo del concilio Vaticano II per tutto il mondo ortodosso. L’unico rischio di questi incontri particolari tra Bartolomeo e Francesco è che siano strumentalizzati diventando una pietra d’inciampo sul faticoso cammino che il mondo ortodosso sta percorrendo nel tentativo di ridefinire i suoi equilibri interni nel rispetto delle autonomie, ma anche nell’esigenza di sviluppare un sentire comune per una testimonianza cristiana più autentica.
Come diceva, la Turchia è un crocevia della storia attuale: ponte tra Oriente ed Occidente, modernità e tradizione. Qual è la parola evangelica che potrebbe servire oggi a questo Paese?
La Turchia continua a fare il pendolo tra la memoria di un passato glorioso e la speranza di un futuro ancora solo sognato ma dal profilo offuscato in un presente incerto. In altre parole, l’impressione è che il turco medio sia ancora alla ricerca di una nuova rappresentazione di sé, preso tra il desiderio di essere come un altro e la nostalgia di essere se stesso. Negli ultimi anni questo Paese ha pure tentato di diventare un punto di riferimento per le aspiranti neo democrazie della regione: una svolta politica dopo anni di infruttuosi tentativi di entrare nell’Unione Europea, nell’intenzione di declinare una sorta di «via democratica islamica» da elevare a «modello» per gli Stati vicini. I repentini cambiamenti politico-strategici avvenuti nella Regione, parlano oggi di un Paese isolato, esitante sulle politiche da adottare e con frontiere esplosive… Aspettare ancora tempi migliori, ricominciando a sognare un futuro mitico? Di fronte ad una simile tentazione, ci viene in mente quel passo del Vangelo di Marco che dice: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino…» (1,15), invito a cogliere i segni dei tempi per iniziare nel presente a costruire futuro. È un messaggio di straordinaria attualità, per un Paese a cui è chiesto di leggere il presente per orientare politiche durature capaci di dare risposte concrete in regione che esplode, ferita da contrapposizioni molto violente e da situazioni non governate da troppo tempo. Ma è un messaggio che deve riacquistare tutta la sua attualità anche per i cristiani minoritari, che da troppo tempo confondono la necessità di perpetuare «il memoriale della salvezza», con una vaga «memoria nostalgica di un passato mitizzato» che paralizza nel presente!