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A cosa mira la nuova proposta di legge su Israele Stato ebraico?

Chiara Cruciati
30 novembre 2014
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A cosa mira la nuova proposta di legge su Israele Stato ebraico?
Il premier Benyamin Netanyahu, promotore, con il suo governo, della nuova legge sull'ebraicità dello Stato di Israele. (foto: Alex Kolomoisky/Pool/Flash90)

Un terremoto politico! L’approvazione del disegno di legge sullo Stato ebraico da parte del governo israeliano - lo scorso 23 novembre - ha scatenato reazioni e polemiche dentro e fuori il Paese. La parola tocca ora al Parlamento, ma intanto si cerca di decifrare il senso della proposta, che sembra voler affossare l'idea dei due Stati per due popoli.


Un terremoto politico fuori e dentro Israele: l’approvazione del disegno di legge sullo Stato ebraico da parte del governo – lo scorso 23 novembre – ha scatenato reazioni ai vertici nazionali e internazionali. Dentro l’esecutivo la battaglia impazza tra moderati e ultranazionalisti, mentre da Washington e Bruxelles giungono critiche.

I ministri hanno espresso 14 sì e 6 no. Nei prossimi giorni spetterà alla Knesset, il parlamento israeliano, promuovere o bocciare il disegno di legge. I timori della minoranza palestinese, musulmana e cristiana, ma anche di molti immigrati non ebrei affollano i media: se lo Stato sarà solo ebraico, cosa accadrà ai diritti di chi ebreo non è?

Il dibattito è già incandescente: i giornalisti che il 23 novembre attendevano fuori dalla sala dove i ministri discutevano il disegno di legge raccontano di grida e urla. Il governo si è spaccato: da una parte il premier Netanyahu e Naftali Bennett, leader di Casa ebraica e ministro dell’Economia, e dall’altra Tzipi Livni, ministro della Difesa, e Yair Lapid, delle Finanze. Il primo ministro ha cercato di abbassare i toni affermando che «Israele è lo Stato ebraico per il popolo ebraico, ma con uguali diritti per tutti i cittadini, non conosco un Paese con una democrazia più vibrante di quella israeliana», ma dure critiche sono giunte anche dal presidente della repubblica, Reuven Rivlin, figura da sempre in competizione con Netanyahu.

Di diversa opinione le cancellerie mondiali: temono che una legge simile possa intensificare le tensioni già alle stelle nel Paese, dove vivono un milione e 600mila palestinesi, e i Territori occupati. Dalla Ue e dagli Usa arrivano gli appelli ad Israele affinché preservi sempre e comunque gli standard democratici.

Ma cosa cambierà davvero? Se il disegno di legge uscirà invariato dall’esame del parlamento, la normativa introdurrà una serie di misure sui «diritti nazionali», ovvero riguardo alla bandiera, all’inno, alla cancellazione dell’arabo come seconda lingua del Paese e al diritto all’immigrazione riservato ai soli ebrei. La legge impedirà l’incremento di immigrati non ebrei – soprattutto africani richiedenti asilo – e ostacolerà i ricongiungimenti familiari palestinesi e, ovviamente, il diritto al ritorno dei profughi palestinesi all’estero.

Da tempo Israele definisce se stesso come Stato democratico e al contempo ebraico, una caratteristica non priva di contraddizioni che negli anni ha consentito di varare leggi e norme che distinguono i cittadini sulla base dell’appartenenza etnico-religiosa. Così, ad esempio, può puntare alla carica di primo ministro o di capo dello Stato solo un israeliano, o israeliana, di nazionalità ebraica.

Nella pratica, secondo molti osservatori, le norme proposte dal governo non cambieranno molto: «La legge non influenzerà in maniera concreta la vita delle minoranze – ci spiega Gideon Levy, tra i più noti giornalisti israeliani per il quotidiano liberale Haaretz –. La normativa non avrà conseguenze legali, ma agirà sull’atmosfera interna del Paese, già estremamente nazionalistica e discriminatoria. Creerà una nuova dimensione che legittimerà certi comportamenti e anche certe leggi discriminatorie che già esistono. Insomma, se la legge venisse approvata domani, non significa che la vita di chi non è ebreo cambierà completamente: è un processo e va visto come tale».

«Perché ora? Molti ritengono che il motivo per cui il Consiglio dei ministri abbia votato proprio adesso la legge è la grande battaglia interna alla coalizione di governo e il tentativo di alcuni leader di compiere la scalata verso la poltrona di primo ministro in vista delle elezioni – aggiunge Levy –. Ma accanto a questo, ritengo che il vero motivo sia porre fine alla soluzione a due Stati: questa legge prepara la strada alla soluzione ad uno Stato. Non uno Stato democratico per tutti, israeliani e palestinesi, ma uno Stato di apartheid, fondato sull’annessione definitiva dei Territori Occupati».

C’è da chiedersi, allora, cosa accadrà al cosiddetto processo di pace con l’Autorità Nazionale Palestinese che da tempo preme per il riconoscimento dello Stato di Palestina nei confini del 1967: «Il negoziato non subirà danni semplicemente perché non è possibile uccidere qualcosa che è già morto – conclude Levy – Il processo di pace non esiste e una legge del genere darebbe il colpo di grazia a qualsiasi possibilità di dialogo. L’Anp lo sa: Israele ha bisogno di una legge del genere solo se il suo obiettivo è porre fine alla soluzione a due Stati».

Di opinione simile anche la minoranza palestinese in Israele: «Se questa proposta diventa legge, si istituzionalizzerà il razzismo che è già una realtà – ci spiega Majed Khwel, membro di Adalah, il Centro legale per i diritti della minoranza araba –. Una democrazia garantisce che i tutti i cittadini abbiano gli stessi diritti e non siano distinti su basi religiose o etniche. Ma non significa che assisteremo a cambiamenti nel sistema politico israeliano: l’idea dello Stato ebraico giustifica già le discriminazioni contro i non ebrei. Non si avranno modifiche di leggi preesistenti né un cambiamento nelle sentenze della corte suprema. L’obiettivo non è legale, ma politico: i partiti di estrema destra vogliono attirarsi consenso popolare».

«Dopotutto questa legge arriva dopo un’ondata di leggi razziste degli ultimi due anni approvate dalla Knesset, come la Legge sulla Nakba, che vieta ai palestinesi di commemorare quanto accaduto nel 1948, e la legge sui consigli di villaggio, che dà a (determinati) comuni il potere di rifiutare nel loro territorio famiglie palestinesi. Fa parte di un contesto più ampio di discriminazione».

«Non cambia nulla nemmeno per il diritto al ritorno dei profughi palestinesi perché una legge che lo impedisce c’è già –continua Khwel –. A livello politico e diplomatico, è un altro passo verso la fine del negoziato e la soluzione a due Stati. Il messaggio che viene inviato, però, non è diretto all’Anp, ma alla comunità internazionale: Israele dice al mondo che non ha intenzione di promuovere il dialogo».

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