Dovessimo basarci sui discorsi pronunciati la settimana scorsa a New York, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dovremmo dire che palestinesi e israeliani si sono ancora più allontanati da una possibile intesa dopo la guerra di Gaza di luglio-agosto. Fortunatamente, però, le parole pesanti pronunciate al Palazzo di Vetro non sono tutto.
Dovessimo basarci sui discorsi pronunciati la settimana scorsa a New York, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dovremmo dire che palestinesi e israeliani si sono ancora più allontanati da una possibile intesa dopo la guerra di Gaza di luglio e agosto scorsi.
Il 26 settembre il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha utilizzato toni assai duri contro Israele e privi di qualunque autocritica: le responsabilità di Hamas non sono mai state evocate (effetto del governo di unità nazionale finalmente formato dai palestinesi nella primavera scorsa?).
L’anziano leader ha esordito parlando di una «nuova guerra di genocidio» scatenata da Israele contro la sua nazione proprio nell’Anno internazionale di solidarietà con il popolo palestinese, proclamato dall’Onu. Un evento, quello dei bombardamenti sulla Striscia, che negli ultimi cinque anni si è già ripetuto più volte, ma che nei mesi scorsi ha raggiunto un’intensità di fuoco inedita. «Quest’ultima guerra contro Gaza – ha osservato il capo dell’Anp – è stata una serie di veri e propri crimini di guerra commessi davanti agli occhi e agli orecchi del mondo intero. (…) In nome della Palestina e del suo popolo, io voglio affermare qui oggi: non dimenticheremo e non perdoneremo. Non consentiremo ai criminali di guerra di sfuggire alla punizione».
Il presidente ha poi ricordato che la guerra è stata preceduta da «lunghi e difficili negoziati durati più di otto mesi sotto gli auspici degli Stati Uniti». Negoziati falliti nonostante la buona volontà da parte palestinese, dice Abu Mazen, che attribuisce la responsabilità dello scacco unicamente ad Israele: «Come sempre, il governo israeliano non ha perso l’opportunità di minare alla base le possibilità di giungere alla pace. Durante tutti i mesi delle trattative, la costruzione di nuovi insediamenti, la confisca di terre, la demolizione di case, le uccisioni, le campagne di arresti e i reinsediamenti coatti in Cisgiordania sono continuati inesorabilmente e l’ingiusto blocco intorno a Gaza è stato rafforzato. La campagna dell’occupazione ha preso di mira principalmente la città di Gerusalemme e i suoi abitanti, nell’intento di alterare artificiosamente lo spirito, l’identità e il carattere della Città Santa. (…) Nuovamente il governo israeliano non ha superato l’esame della pace».
«Israele – accusa Abbas – rifiuta di mettere fine all’occupazione dello Stato di Palestina iniziata nel 1967. Ne vuole anzi la continuazione e il consolidamento, rigetta lo Stato di Palestina e si rifiuta di trovare una giusta soluzione alla condizione dei profughi palestinesi. Il futuro che il governo di Israele propone per il popolo palestinese è, nella migliore delle ipotesi, quello di ghetti isolati per palestinesi su terre frammentate, senza confini e senza sovranità sul proprio spazio aereo e sulle proprie risorse idriche e naturali, che sarebbero soggette al controllo di coloni razzisti e dell’esercito di occupazione. Nel peggiore dei casi sarà una forma odiosa di apartheid».
A questo punto Abu Mazen ha chiesto un drastico mutamento di rotta: «È impossibile – lo ripeto: impossibile – tornare a un ciclo di negoziati che non sono stati in grado di affrontare la sostanza della materia e le questioni fondamentali. Non c’è credibilità né serietà alcuna in negoziati nei quali Israele predetermina i risultati tramite l’attività dei suoi insediamenti e la brutalità dell’occupazione. Non c’è alcun significato o valore in negoziati per i quali l’obiettivo condiviso non è porre fine all’occupazione israeliana e raggiungere l’indipendenza dello Stato di Palestina che abbia Gerusalemme Est come capitale e l’intero territorio occupato nella guerra del 1967. Non ha alcun valore un negoziato che non sia legato a una chiara tabella di marcia per il raggiungimento di questo obiettivo».
La nuova linea palestinese propone di accantonare la mediazione di Washington investendo invece della questione «pace in Terra Santa» le Nazioni Unite. Abu Mazen l’ha messa così: «Nelle ultime due settimane, la Palestina e i Paesi membri del Gruppo Arabo hanno avviato contatti intensi con i vari gruppi regionali in seno alle Nazioni Unite per preparare una bozza di risoluzione da sottoporre al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sul conflitto israelo-palestinese e per spingere avanti gli sforzi per il raggiungimento della pace».
«Questo tentativo – nell’intento di Abu Mazen – aspira a correggere le carenze degli sforzi precedenti per raggiungere la pace affermando l’obiettivo di porre fine all’occupazione israeliana e raggiungere una soluzione giusta e condivisa alla questione dei profughi palestinesi sulla base della risoluzione 194 (adottata l’11 dicembre 1948 dall’Assemblea generale dell’Onu – ndr), con una specifica cornice temporale per la messa in atto di questi obiettivi così come sono stipulati nell’Iniziativa di pace araba (promossa dall’Arabia Saudita nel 2002 – ndr). Tutto questo sarà legato all’immediata ripresa dei negoziati tra Palestina e Israele per definire i confini, raggiungere un accordo complessivo e dettagliato e pervenire a una bozza di trattato di pace tra le due parti».
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha preso la parola nel Palazzo di Vetro il 29 settembre, ignorando del tutto il nuovo percorso ipotizzato dalla controparte palestinese. Nel suo intervento ha parlato di Islam militante come di una minaccia globale, ribadendo due temi a lui cari: la lotta al terrorismo e la necessità di contrastare l’Iran degli ayatollah.
Netanyahu ha citato Hamas 27 volte, cominciando col dire che «Isil (lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante – ndr) e Hamas sono rami dello stesso albero velenoso e condividono lo stesso fanatico credo, che cercano di imporre ben oltre il territorio sotto il loro controllo». Per il premier israeliano, poi, l’Iran degli ayatollah è una minaccia non meno temibile dell’Isil. Non gli si può consentire di armarsi di ordigni atomici, non più di quanto lo si permetterebbe all’Isil: «L’Isil va sconfitto. Ma sconfiggere l’Isil e lasciare l’Iran sulla soglia della potenza nucleare è come vincere una battaglia e perdere la guerra».
Il primo ministro israeliano ha respinto l’accusa di genocidio mossa da Abu Mazen. «Genocidio? – si è chiesto in modo retorico –. In quale universo morale un genocidio comporta l’avvisare la popolazione civile del nemico di allontanarsi dalle aree a rischio? Oppure il consentire che riceva tonnellate e tonnellate di aiuti umanitari ogni giorno, anche mentre migliaia di razzi vengono sparati su di noi? O, ancora, l’allestire un ospedale da campo per soccorrere i feriti?».
Il premier è tornato a ribadire che Israele non ha fatto altro che difendersi dai lanci di razzi e dai tunnel scavati dai miliziani palestinesi sotto il confine con la Striscia di Gaza (un confine che lo Stato ebraico considera meno fluido e indefinito di quello con i Territori palestinesi della Cisgiordania) per infiltrarsi in territorio israeliano e compiervi azioni di guerriglia.
«Mentre Israele colpiva le rampe di lancio e i tunnel – ha osservato Netanyahu –, i civili palestinesi venivano tragicamente, ma non intenzionalmente, uccisi. Immagini strazianti documentano quelle morti e hanno alimentato accuse diffamatorie secondo le quali Israele stava deliberatamente prendendo di mira i civili. Non è così. Noi ci rammarichiamo profondamente per ogni singola vittima civile. E la verità è questa: Israele ha fatto di tutto per ridurre al minimo le perdite tra i civili palestinesi, mentre Hamas ha fatto di tutto per ottenere il maggior numero di vittime civili israeliane e palestinesi. (…) Israele ha usato i suoi missili per proteggere i propri figli. Hamas ha usato i propri figli per proteggere i suoi missili».
Ricordiamo, per inciso, che si piangono circa 2.200 morti sul versante palestinese e una settantina (quasi tutti militari) su quello israeliano.
Nel concludere il suo intervento anche Netanyahu ha introdotto un elemento nuovo rispetto a solo un anno fa: «Nonostante le enormi sfide che stanno davanti ad Israele, io credo che abbiamo anche un’opportunità storica. Dopo decenni in cui hanno visto Israele come un nemico, gli Stati più importanti del mondo arabo stanno sempre più riconoscendo che noi e loro dobbiamo misurarci con gli stessi pericoli: che sono principalmente un Iran dotato di armi atomiche e il farsi strada dei movimenti islamisti in ambito sunnita».
«Sta a noi – ha proseguito il premier israeliano – lavorare su questi interessi comuni per creare un partenariato produttivo. Che sia in grado di costruire un Medio Oriente più sicuro, pacifico e prospero. Insieme possiamo rafforzare la sicurezza regionale. Possiamo mandare avanti progetti (comuni) nel settore idrico, in agricoltura, nei trasporti, nella salute, nell’energia e in molti altri campi. Io credo che la collaborazione tra noi possa anche aiutare a facilitare la pace tra Israele e i palestinesi. Molti hanno a lungo pensato che una pace israelo-palestinese potesse aprire la strada a un più ampio riavvicinamento tra Israele e il mondo arabo. Ma in questi giorni io penso che possa essere vero anche il contrario: e cioè che un più ampio riavvicinamento tra Israele e il mondo arabo possa facilitare la pace israelo-palestinese. Perciò per raggiungere quella pace, dobbiamo guardare non solo a Gerusalemme e Ramallah, ma anche al Cairo, ad Amman, Abu Dhabi, Riyadh e altrove. Credo che la pace possa essere realizzata con il coinvolgimento dei Paesi arabi, di quelli che sono disposti a fornire l’indispensabile sostegno politico, materiale e di ogni altro genere». Segno che il governo israeliano – che fin qui non sembra aver dato molto credito all’Iniziativa di pace araba – si accinge a cambiare linea? O una mossa tattica per rinviare indefinitamente ogni nuova fase negoziale con i palestinesi?
«Sono pronto ad accettare storici compromessi – ha ribadito Netanyahu – e non perché Israele stia occupando una terra straniera. Il popolo di Israele non è un occupante nella Terra di Israele. La storia, l’archeologia e il senso comune dicono chiaramente che abbiamo un legame unico con questa terra da oltre tremila anni. Voglio la pace perché voglio un futuro migliore per il mio popolo. Ma dev’essere una pace genuina, che sia ancorata sul reciproco riconoscimento e su durevoli accordi in tema di sicurezza sul terreno. Perché, vedete, il ritiro di Israele dal Libano e da Gaza ha dato spazio alla creazione di due enclave dell’islamismo militante dalle quali decine di migliaia di razzi sono state sparate su Israele».
Le preoccupazioni per la sicurezza, presente e futura, di Israele sono oggi più grandi che mai, fa intendere il primo ministro dello Stato ebraico: «Guardatevi intorno. Il Medio Oriente è nel caos. Gli Stati si disintegrano e i militanti islamisti riempiono il vuoto. Israele non può avere territori dai quali si ritira e che poi passano sotto il controllo degli islamisti ancora una volta, come è già accaduto a Gaza e nel Libano. Ciò significherebbe far arrivare gente come quelli dell’Isis a tiro di mortaio – cioè a poche miglia – dall’80 per cento della nostra popolazione. (…) Ecco perché in qualunque accordo di pace, che ovviamente imporrà un compromesso territoriale, io insisterò sempre perché Israele sia posta in grado di difendersi da sola di fronte a qualunque minaccia».
Fin qui le parole dei vertici politici dei due popoli antagonisti in Terra Santa. Fortunatamente dietro l’apparente muro contro muro restano canali di comunicazione aperti, magari informali e segreti, e continua il lavoro di chi, da una parte e dall’altra, tesse relazioni e dialogo. Con la mediazione egiziana è stato possibile raggiungere un cessate il fuoco stabile a Gaza il 26 agosto scorso e sempre coi buoni uffici del Cairo ora si tratta per alleggerire le restrizioni imposte fino ad oggi alla popolazione della Striscia e avviare percorsi di riabilitazione e ricostruzione.