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Turchia, la nuova repubblica di Erdoğan

Kate Carlisle
1 settembre 2014
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Turchia, la nuova repubblica di Erdoğan
Recep Tayyip Erdoğan davanti al Parlamento turco per il giuramento come presidente della Repubblica il 28 agosto 2014.

Giovedì scorso, 28 agosto, Recep Tayyip Erdoğan, a lungo primo ministro turco, si è insediato come dodicesimo presidente della Repubblica. Il primo eletto a suffragio universale. Abbiamo chiesto ad Haluk Sahin, giornalista e docente universitario, di aiutarci a capire dove vada la Turchia, entro un contesto mediorientale in grande mutamento.


Nell’ultimo decennio la svolta a destra della Turchia, sotto la guida di un governo conservatore, ha suscitato non poche perplessità. Con il timone del Paese affidato al leader del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp), Recep Tayyip Erdoğan, la società turca di stampo laico è stata testimone, tra l’altro, di un giro di vite su Twitter e altri mezzi di comunicazione, dell’inasprimento delle norme che regolano la vendita e il consumo di alcol e della risposta brutale della polizia alle manifestazioni popolari pacifiche scoppiate nel maggio 2013 contro la programmata distruzione del parco Gezi, in piazza Taksim a Istanbul, per fare spazio a un centro commerciale.

Erdoğan salì al potere come primo ministro nel 2003 e ha ricoperto la carica fino a pochi giorni fa. La sua elezione a presidente della Repubblica, avvenuta il 10 agosto scorso a suffragio universale, dovrebbe formalmente spezzare il legame con il suo partito, ma potrebbe rafforzare il suo già ampio potere politico.

Il sessantenne ex sindaco di Istanbul può enumerare tra i suoi successi la svolta economica, il potenziamento delle infrastrutture e il ritorno a una società più «moralistica».

D’altra parte è riuscito a rintuzzare tutte le accuse di corruzione che gli sono state lanciate, incluse quelle che poggiano sull’intercettazione di una sua conversazione telefonica con il figlio in cui i due parlano apparentemente di illeciti trasferimenti di grosse somme di denaro. Erdoğan ha dichiarato che quella conversazione è un falso costruito con un «montaggio immorale» di spezzoni di altre conversazioni.

Giornalista veterano e docente di comunicazione presso l’Università Bilgi di Istanbul, Haluk Sahin osserva la strada che la Turchia ha imboccato sotto Erdoğan e si interroga su quelle che saranno le sue prossime mosse.

Nel suo venticinquesimo libro, pubblicato nel 2013 col titolo Hodri Medya («La sfida dei media»), Sahin esamina i cambiamenti in corso nei mass media. Conduttore di Arena, popolare programma televisivo di indagine, e opinionista del quotidiano Yurt, Sahin analizza da quarant’anni la complessità della società turca, con il suo profilo multietnico e gli eventi, del passato e del presente, che continuano a plasmare il Paese. Nel 2006, con altri quattro colleghi turchi, Sahin finì sotto processo con l’accusa di oltraggio alla corte, per aver riportato la decisione di un tribunale di chiudere una conferenza in programma a Istanbul sullo sterminio degli armeni da parte dei turchi a inizio Novecento, quando l’Impero Ottomano era ormai al tramonto. Per il capo di imputazione, Sahin rischiava una condanna tra i sei mesi e i dieci anni di carcere, ma fu assolto.

Terrasanta.net lo ha intervistato sull’impatto dell’azione di governo di Erdoğan sulla Turchia contemporanea.

Quando e come è iniziato in Turchia il cambiamento in uno Stato di stampo conservatore?
La svolta avvenne con un momento cruciale: il colpo di Stato militare del 12 settembre 1980. I generali, all’apparenza kemalisti (cioè seguaci del nazionalismo laico di Mustafa Kemal Atatürk, padre della repubblica turca – ndr), schiacciarono senza pietà tanto la sinistra quanto la destra nazionalista creando così un vuoto che fu colmato dagli islamisti. I quali da allora hanno fatto molta strada: prima ci fu il periodo di Turgut Özal (primo ministro tra il 1983 e il 1989 e capo dello Stato dall’89 al 1993 – ndr) anch’egli un islamista che aprì spazi d’azione ad alcune comunità religiose emarginate in epoca repubblicana. Poi c’è stata la vittoria elettorale nei municipi di Istanbul e Ankara con un margine ristrettissimo (Erdoğan divenne sindaco di Istanbul nel 1993 con solo il 26 per cento dei voti) e infine le elezioni del 2002 che si svolsero sulla scia di una delle peggiori crisi economiche della Turchia. Il nuovo partito di Erdoğan, Giustizia e Sviluppo, ottenne il 34 per cento dei voti, ma si aggiudicò più della metà dei seggi dell’Assemblea nazionale grazie a un contorto sistema elettorale. In seguito vinsero altre due elezioni con circa metà dei voti e dopo 12 anni al potere hanno assunto il pieno controllo dell’apparato dello Stato spingendo i militari fuori dall’ambito della politica, estromettendo i funzionari pubblici con un’impostazione laica e riorganizzando il sistema dell’istruzione. Sono anche riusciti a plasmare i media a loro piacimento applicando il metodo del bastone e della carota. Sono il nuovo status quo. Non sembrano avere il benché minimo scrupolo nell’utilizzo dell’apparato statale, checché ne dica la legge.

Il 28 agosto, insediandosi ufficialmente come dodicesimo presidente della Repubblica turca, Erdoğan ha detto: «L’era della vecchia Turchia è finita. Ora siamo nell’epoca della Turchia nuova, la grande Turchia che reca in sé la sostanza e lo spirito della Repubblica». Che tipo di Paese e di società è oggi? Qual è la sua fisionomia e quale il suo futuro?
Erdoğan, il primo ministro prescelto Ahmet Davutoğlu (responsabile degli Esteri dal 2009 al 2014 – ndr) e i loro colleghi hanno un modo di pensare che richiama il tema dello scontro di civiltà caro a Samuel Huntington. Essi reputano che il salto di civiltà che indusse la Turchia a «occidentalizzarsi», cosa che avvenne in gran parte sotto la guida del fondatore della Repubblica, Atatürk, sia stato un tragico errore. La Turchia avrebbe dovuto restare la capofila del mondo islamico, mantenendo in vita l’istituzione del califfato e unificando i musulmani di ogni tendenza in uno spirito neo-Ottomano contro le altre «civiltà». Semplificando, non sarebbe errato dire che vogliono riportare indietro l’orologio della Storia e hanno individuato il 2023, centenario della Repubblica di Atatürk, come la data in cui il cambiamento culturale avviato sarà completo. Così, con l’elezione di Erdoğan a presidente, possiamo presumere di essere alla vigilia di questa «nuova Turchia»: più musulmana, più conservatrice, prospera e influente a sia livello regionale sia mondiale. «L’altra metà del Paese» che non condivide questi progetti inorridisce davanti a quanto Erdoğan e Davutoğlu hanno in mente per il futuro comune. Molti reputano che siano piani privi di realismo e temono che queste fantasie costeranno care al Paese.

La Turchia confina con nazioni alle prese con le insurrezioni, come la Siria e l’Iraq. Erdoğan è stato anche apertamente critico verso Israele per la sua politica nei Territori occupati palestinesi. Quali sono gli obiettivi del nuovo presidente e quale la visione per il futuro della Turchia nel quadro del Medio Oriente dei nostri giorni?
Il nostro governo aveva grandi aspettative, ma si è scottato le dita dopo la cosiddetta Primavera araba. Avevano questa errata percezione secondo la quale gli arabi morivano dalla voglia di ottenere la protezione di quello che fu il governo ottomano e che quindi avrebbero ascoltato qualunque consiglio venisse dal tandem Erdoğan-Davutoğlu. Alla lunga speravano che i Fratelli Musulmani giungessero a dominare il Medio Oriente, dalla Tunisia all’Egitto, fino alla Palestina (con Hamas) e alla Siria, per giungere al centro vero del potere: (la capitale turca) Ankara. Per un momento è parso che i piani funzionassero molto bene. La politica di Davutoğlu – «nessun problema coi vicini» – sembrava funzionare alla perfezione. La Turchia e la Siria tenevano riunioni di governo congiunte; Erdoğan era un eroe per le masse arabe perché teneva testa verbalmente a Israele. Poi è iniziata l’insurrezione in Siria e tutto è andato a rotoli. Dopo una serie di mosse sbagliate, Ankara è sembrata mettere in atto una politica di parte nella regione. Oggi la Turchia ha problemi con ciascuno dei suoi vicini mediorientali e le masse arabe urlano slogan contro Erdoğan.
Uno degli errori commessi da Erdoğan e Davutoğlu è stata la scelta delle alleanze in Siria. Inizialmente hanno sostenuto i ribelli sunniti di ogni genere, nella speranza che la caduta del presidente Bashar al Assad fosse imminente. È così che gruppi come Al Nusra e lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) si sono fatti largo. Ora, impantanati nella palude mediorientale, i nostri non sanno più che fare. Hanno le mani legate perché lo Stato Islamico tiene ostaggi a Mosul 49 cittadini turchi, tra diplomatici e loro familiari.

In qualità di primo presidente eletto a suffragio universale Erdoğan dice di voler rafforzare il ruolo della presidenza emendando la Costituzione. Cosa implicherebbe un simile intento? È un obiettivo raggiungibile?
Erdoğan ha uno stile di governo improntato all’autoritarismo, sulla linea del collega russo Vladimir Putin. Nell’ultimo quinquennio ha guidato il Paese quasi in solitaria. Da primo ministro aveva tutti i poteri necessari e ne voleva ancora. In realtà ha ormai raggiunto il limite massimo della sua popolarità vincendo le ultime tre tornate elettorali sempre con 20 milioni di consensi, su 55 milioni di votanti. Ciò di cui la Turchia ha bisogno è un’opposizione credibile che convinca il popolo di poter governare l’economia almeno tanto bene se non meglio. Milioni di persone indebitate fino al collo considerano con orrore l’eventualità di ripiombare in una crisi economica. Per questo votano Erdoğan.

La Turchia è ancora uno Stato laico?
Il nostro Paese non è mai stato uno Stato laico nel senso stretto del termine. C’è un dipartimento (musulmano sunnita) per gli Affari religiosi sin dall’inizio della Repubblica e ha il compito di tenere sotto controllo l’educazione e la pratica religiosa. Eppure fino agli anni Novanta a livello ufficiale c’è sempre stata grande attenzione ad evitare lo sfruttamento della religione a fini politici. Non è più così. La religione viene utilizzata in politica in modo vergognoso ed Erdoğan ne è il principale responsabile.

Che ruolo giocano i militari e la società civile?
I militari, che avevano preso la cattiva abitudine di inscenare colpi di Stato grosso modo ogni 10 anni, sono stati ammansiti con nuove norme, messe in stato d’accusa e processi. Alcuni dei quali – ora lo sappiamo – si sono basati su cospirazioni e prove fabbricate ad arte. Possiamo comunque dire che la casta militare, un tempo onnipotente, è stata ridimensionata sul piano morale quanto su quello pratico. Ora come ora non conta molto. Quanto alla società civile, è viva e cresce, come hanno dimostrato lo scorso anno gli eventi del parco Gezi (con le manifestazioni di piazza Taksim a Istanbul – ndr).

Erdoğan ha aspramente criticato i mass media perché non diffondono adeguatamente «la buona notizia» dei suoi successi. Nel febbraio scorso il suo partito ha presentato in Parlamento una controversa nuova legge su Internet che consentirebbe alle autorità che vigilano sulle telecomunicazioni di bloccare qualunque sito web senza prima ottenere un’autorizzazione della magistratura. Ora che ha raggiunto la presidenza, il nuovo capo dello Stato mostra di voler ridimensionare il proprio desiderio di controllare i media?
È troppo presto per dirlo, ma sappiamo che egli è il prodotto di una cultura che propugna con orgoglio l’obbedienza. Inoltre è uno che se prende ogni critica come un attacco personale. Si avvale di numerosi avvocati a caccia di casi di diffamazione nei media e implacabilmente intenta cause ai giornalisti. Non mi aspetto che adesso diventi un campione della libertà di stampa. Da buon islamista, il suo bagaglio culturale non si sposa con un’idea del genere.

Come viene percepito in Turchia il movimento islamista e quanto è potente? Le minoranze etniche e religiose risentono della situazione? La sera della sua elezione a presidente, il 10 agosto scorso, Erdoğan ha fatto un discorso conciliante, nel quale ha detto che tutti i cittadini sono prima di ogni altra cosa turchi… Un cambiamento di rotta rispetto a un certo linguaggio oltraggioso usato in campagna elettorale. Possiamo leggerlo come un passo avanti verso un approccio maggiormente inclusivo?
Quella turca è una società frammentata. Nelle zone costiere e nelle grandi città non si percepisce quasi il processo di islamizzazione imposto dal governo. Un terzo della popolazione – quella istruita e occidentalizzata che vive nelle città – va avanti con il suo stile di vita senza grandi cambiamenti, ad esempio continuando a bere vino, andare a ballare, indossare minigonne ecc. Non dimentichiamo che la Turchia è anche un Paese mediterraneo. È nell’entroterra che i cambiamenti sono più evidenti. A preoccuparmi maggiormente è il modo in cui armeggiano con il sistema educativo, forzando i bambini a iscriversi nelle scuole di tipo religioso come una sorta di investimento per il futuro, probabilmente proprio in vista del processo per una nuova Turchia entro il 2023.

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