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Quei 400 villaggi di Israele che si scelgono i propri abitanti

Chiara Cruciati
19 settembre 2014
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Il 17 settembre la Corte Suprema israeliana ha rigettato un ricorso contro una legge approvata nel 2011. La norma, contestata da alcune organizzazioni per i diritti umani, consente ai cittadini di 434 piccole comunità nel nord e nel sud di Israele di opporsi a palestinesi con passaporto israeliano che cerchino di acquistare una casa o affittare un appartamento.


Sono 434 le comunità israeliane che potranno chiudere le porte a palestinesi con cittadinanza israeliana che intendono acquistare una casa o affittare un appartamento entro i loro confini. Nel deserto del Neghev e in Galilea, l’ingresso è proibito perché la loro presenza non è «socialmente compatibile» con la «struttura culturale e sociale» delle cittadine.

A dare via libera ad una legge approvata dalla Knesset nel 2011 e subito portata in tribunale da Adalah (un centro per la tutela legale della minoranza araba in Israele) è stata la Corte Suprema israeliana con una sentenza emessa il 17 settembre scorso.

«In questa fase non siamo in grado di determinare se la legge violi i diritti costituzionali», si è limitata a dire la Corte, rigettando così la petizione presentata da Adalah tre anni fa. La legge in questione riconosce ai comitati cittadini di 434 comunità in Israele (il 43 per cento del totale), a nord e a sud, di rifiutare l’ingresso di persone interessate a stabilirvisi basandosi su criteri quali la razza, l’etnia, la religione, nel caso in cui questi elementi siano considerati potenzialmente disgreganti per la comunità.

Immediata la reazione del centro Adalah: «La sentenza della Corte accetta l’esistenza di 434 comunità sulla base del principio della segregazione razziale. Questa legge è una delle normative più razziste emanate in questi ultimi anni, il cui principale obiettivo è marginalizzare i cittadini arabi e impedire loro di accedere alla casa e alla terra in molte comunità». Gli fa eco l’avvocato Suhad Bishara, che ha presentato l’appello tre anni fa: «La decisione della Corte va contro una precedente sentenza del 1999, il caso Ka’adan, con cui permise a una famiglia palestinese di trasferirsi nella città di Katzir nonostante il parere contrario del comitato cittadino. Oggi con questa sentenza si accetta il principio di separazione della residenza sulla base dell’identità».

Il tutto basandosi sulle decisione di «comitati di ammissione» che per ogni comunità hanno il potere di autorizzare altri cittadini ad acquistare case o pezzi di terreno. All’interno di ogni comitato è presente anche un rappresentante dell’Agenzia Ebraica (organismo di punta del sionismo). Non solo: i comitati cittadini, secondo quanto previsto dalla legge, potranno individuare – accanto al criterio della compatibilità sociale – ulteriori parametri a loro discrezione.

«Il criterio che viene stabilito, la cosiddetta compatibilità sociale, è vago, totalmente arbitrario e discrezionale – ci spiega Salah Mohsen, direttore di Adalah – Sono state escluse giovani coppie, professori universitari, solo perché palestinesi. Ad oggi sono pochissimi i palestinesi che vivono già in queste comunità. Tutti loro si erano trasferiti dopo il nostro appello alla Corte. La petizione che avevamo presentato riguardava una specifica comunità che aveva negato l’accesso ad una famiglia araba».

Sono oltre 400 le comunità in cui il potere decisionale e un’autorità che dovrebbe essere esercitata solo dallo Stato viene attribuita a dei comitati cittadini. I quali decidono chi entra e chi esce: «La legge – prosegue Mohsen – riguarda queste specifiche comunità perché si tratta dei cosiddetti “villaggi comunitari” costruiti su terre statali confiscate ai profughi palestinesi. Sono comunità molto piccole e con poche famiglie, al massimo 200 per villaggio. Giovani coppie o famiglie arabe hanno progettato di trasferirsi lì perché sono luoghi tranquilli, con dello spazio a disposizione. Al contrario, le città palestinesi in Israele sono estremamente affollate perché non è permesso l’allargamento dei confini municipali e le condizioni di vita non sono certo ottimali».

In Israele vi sono città e comunità prevalentemente arabe, in cui lo Stato non investe né in infrastrutture né nel settore economico: mancano luoghi di svago, giardini, parchi gioco, scuole, zone industriali. Sono abbandonate a sé stesse, con un elevato tasso di disoccupazione e, allo stesso tempo, un numero elevatissimo di pendolari. Si lascia la città alla caccia di opportunità di lavoro o per dare la possibilità ai figli di vivere in un ambiente più tranquillo. Ed ecco che quelle 434 piccole comunità erano diventate un sogno per tante famiglie palestinesi.

Per questo l’intenzione, ora, è quella di proseguire nella battaglia legale: «Ancora non sappiamo bene come agire, dobbiamo studiare la sentenza – osserva Mohsen –. Ma lo faremo sicuramente perché si tratta di una normativa che non ha effetti solo sulle famiglie che intendono vivere in queste comunità. È una legge che crea una nuova situazione costituzionale con la quale si compromette il concetto di uguaglianza davanti alla legge. Se si rende legittima la segregazione razziale, si apre la porta ad altre future violazioni e si peggiora di molto la condizione di vita dei palestinesi dentro Israele».

Il 20 per cento circa della popolazione israeliana è palestinese, ma ha accesso solo a un 7 per cento delle terre disponibili. A monte c’è un sistema legale costruito a partire dal 1948 e volto alla confisca sistematica delle proprietà palestinesi a favore dello Stato di Israele. Con il ’48 e l’esilio di 800 mila persone, diventate profughe, le terre arabe sono passate nelle mani dello Stato ebraico che le ridistribuisce non certo seguendo criteri di equità. «In quanto cittadini israeliani – conclude Mohsen – anche i palestinesi che qui risiedono dovrebbero avere le stesse opportunità di accesso alle terre pubbliche. Ma non è così perché una serie di leggi ce lo impedisce. Gli stessi investimenti statali ce lo proibiscono: lo scorso anno l’Amministrazione israeliana delle terre ha allocato grandi appezzamenti per la creazione di 43 nuove zone industriali. Nemmeno una di queste si trova in una città palestinese».

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