Il ministro dell’Interno israeliano, Gideon Saar, il 16 settembre scorso ha disposto che gli uffici anagrafe registrino come «aramei» quegli israeliani cristiani che non vogliono più qualificarsi come arabi. La disposizione, già nell’aria da tempo, è stata subito contestata dalla Commissione Giustizia e Pace dei vescovi di Terra Santa. Ma chi sono i cristiani aramei?
(g.s.) – Il ministro dell’Interno israeliano, Gideon Saar, il 16 settembre scorso ha disposto che gli uffici dell’anagrafe registrino come «aramei» quegli israeliani cristiani che non vogliono più qualificarsi come arabi.
La disposizione, già nell’aria da tempo, è stata subito contestata dalla Commissione Giustizia e Pace degli ordinari di Terra Santa, presieduta dal patriarca latino di Gerusalemme emerito, mons. Michel Sabbah. In un comunicato diffuso il giorno stesso si legge: «Se questo tentativo di separare i cristiani palestinesi dagli altri palestinesi ha come scopo quello di difendere i cristiani o proteggerli, come affermano alcune autorità israeliane, noi dichiariamo: restituiteci come prima cosa le nostre case, le nostre terre e i nostri villaggi che avete confiscato. Seconda cosa: la migliore protezione per noi sarà di lasciarci col nostro popolo. Terza: la migliore protezione per noi è che voi entriate seriamente sulla via della pace».
In un altro passaggio la dichiarazione aggiunge: «Ma se la vostra intenzione, modificando la nostra identità, è garantirvi un partner di pace, noi siamo già partner di pace senza bisogno di questo attacco che mina la nostra identità. Tutti i palestinesi sono partner di pace anche se molti sostengono che siete voi a rifiutarla. (…) Quanto poi agli alcuni cristiani palestinesi in Israele che sostengono questa idea, cioè il recupero delle radici aramee e l’ingresso nel servizio militare, diciamo: svegliatevi! Tornate alle vostre coscienze! Non è possibile che facciate del male al vostro popolo per soddisfare i vostri interessi personali del momento. Con questa inclinazione, non fate del bene né a voi stessi né a Israele».
Delle istanze dei cristiani aramei in Israele si occupa anche un articolo del Dossier pubblicato nel numero di settembre-ottobre 2014 del bimestrale Terrasanta con il titolo Il dilemma delle armi. Qui di seguito vi anticipiamo il testo, a firma di Andrea Krogmann.
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Le domande sollevate da padre Gabriel Nadaf e dal Forum dei cristiani d’Israele per il reclutamento (fondato nel 2012), sull’identità dei cristiani locali e sulla loro posizione rispetto a Israele sono oggetto di aspro dibattito.
Da una parte c’è una generazione di giovani cristiani con passaporto israeliano che vede il proprio futuro all’interno dello Stato ebraico e cerca una completa integrazione. A tal punto che la definizione di «cristiani arabi» è volutamente evitata, e volte perfino rifiutata con vigore. «Siamo aramei, siamo cristiani israeliani, non possiamo lasciarci imporre l’arabizzazione», si ribella Shadi Haloul, membro del Forum.
Dall’altra ci sono le Chiese ufficiali e numerosi cristiani palestinesi che vedono in questa iniziativa l’ennesimo tentativo israeliano di seminare zizzania tra la popolazione palestinese e di dividere i cristiani e i musulmani d’Israele. Evidentemente, questa posizione è allineata con quella del patriarca latino emerito di Gerusalemme, Michel Sabbah. In qualità di presidente della Commissione Giustizia e Pace dell’Assemblea degli Ordinari cattolici di Terra Santa, egli considera l’esercito israeliano come un «esercito di aggressione» il cui fine sarebbe l’occupazione della Palestina e la realizzazione dell’idea di Israele come Stato-nazione ebraico.
L’iniziativa cristiano-palestinese Kairos Palestina ha condannato l’arruolamento di cristiani arabi da parte dell’«esercito di occupazione», giudicandolo immorale nonché dannoso per l’«identità cristiano-palestinese». Chi sostiene questo reclutamento «non rappresenta né le nostre Chiese, né i cristiani».
Il parere del Forum dei cristiani d’Israele, invece, è motivato dalla paura di fronte alla maggioranza musulmana. «Sono parole che suonano bene alle orecchie degli arabi. La verità è che molti cristiani hanno lasciato il Medio Oriente proprio a causa di simili leader ecclesiastici. Il mio discorso può sembrare aggressivo, ma è chiaro e onesto: noi, cristiani del Medio Oriente, nell’attuale congiuntura siamo guidati dalla paura», afferma Haloul, che rifiuta ogni indicazione cogente da parte delle Chiese sulla questione: «Siamo cittadini israeliani e il nostro governo ci rappresenta, indipendentemente dalla religione». C’è anche la paura tangibile della crescente islamizzazione del Medio Oriente: «Viviamo in una bella terra, perché non dovremmo difenderla?».
Fino ad oggi i cristiani d’Israele non sono tenuti al servizio militare. Chi decide di arruolarsi lo fa volontariamente.
Le conseguenze sono ancora più gravose perché spesso questi giovani non trovano comprensione nemmeno all’interno della loro stessa comunità. «Ancora dopo due anni e mezzo, la mia scelta rimane scomoda, quindi ci si adatta di conseguenza: mi sono trasferita in un quartiere residenziale ebraico e quando vado in città non porto l’uniforme», spiega Irin. La giovane, cattolica, avvocatessa, originaria di Nazaret, con ferma convinzione ha deciso di entrare come volontaria nell’esercito contro le resistenze della famiglia «che a tutt’oggi non mi sostiene». Irin si considera ferita dall’atteggiamento altrui: «Le persone dovrebbero smettere di giudicare, si tratta della mia carriera!».
Stando alle informazioni dell’esercito, oggi sarebbero 140, tra uomini e donne, gli arabi cristiani in servizio nell’esercito. Un nuovo movimento (i «Figli del Nuovo Testamento», cfr pp. 28-32), composto da rappresentanti cristiani e del governo, si propone di incrementare l’adesione dei cristiani all’esercito. Anche ammettendo che si raggiunga una percentuale di reclutamento simile a quella della componente ebraica della popolazione (circa il 75 per cento degli uomini e il 60 per cento delle donne) su circa 3 mila cristiani in età di leva il numero dei volontari sarebbe numericamente ridotto e poco significativo all’interno delle forze armate.
Ma per padre Nadaf e i suoi colleghi non si tratta solo di far parte della vita di Israele: «Il servizio civile o militare porta vantaggi economici e psicologici». Un punto di vista confermato dall’ufficiale Irin: «Essere avvocato nell’esercito apre numerose porte. Qui ho imparato molto, e non avrei potuto farlo altrove». Irin non rimpiange la sua decisione e si è impegnata per altri due anni e mezzo di servizio; incoraggia altri cristiani a fare lo stesso. «Ma solo su base volontaria, perché è allora che diamo il meglio».
Andrea Krogmann